I primi 100 giorni di Trump: lotta all'immigrazione ed alla giustizia
Nei primi 100 giorni del secondo mandato, Donald Trump ha dato battaglia sull’immigrazione, sfidato le corti e riacceso tensioni con il Congresso. I suoi ordini esecutivi che spingono al massimo il potere della presidenza stanno mettendo a dura prova la stabilità istituzionale americana.

Dal 20 gennaio Donald Trump è tornato alla Casa Bianca per il suo secondo mandato presidenziale. Nei primi cento giorni la sua Amministrazione ha preso decisioni controverse e senza precedenti, mettendo subito alla prova la propria stabilità. Fin dalle prime ore è apparso evidente che lo stile non sarebbe cambiato rispetto al primo quadriennio, anzi tutto il contrario: linguaggio muscolare, annunci su social prima dei canali istituzionali e un’agenda-shock in cui politica interna ed estera si intrecciano senza soluzione di continuità.
La linea dura di Trump sull’immigrazione
Nei primi cento giorni del suo secondo mandato, il Presidente ha irrigidito la politica migratoria degli Stati Uniti. Tra i provvedimenti varati nei primi giorni spiccano:
- la ripresa delle espulsioni di massa verso i Paesi d’origine dei migranti;
- la sospensione del rinnovo dei permessi di lavoro per alcuni cittadini ucraini e di altri Paesi precedentemente accolti per ragioni umanitarie;
- la revoca dei visti agli studenti coinvolti nelle proteste universitarie pro-Palestina o accusati di infrazioni disciplinari minori;
- un nuovo programma di “rimpatrio volontario”, accompagnato dalla minaccia di ingenti sanzioni pecuniarie per chi rifiuta di aderirvi.
Secondo i dati dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE), fra gennaio e marzo 2025 sono stati eseguiti circa 145.000 arresti per violazioni delle leggi sull'immigrazione, mentre le espulsioni concluse nello stesso periodo si sono attestate a 130.000, rallentate dai nuovi protocolli di frontiera e da una raffica di ricorsi giudiziari.
Con il passare dei mesi la linea dell’Amministrazione si è ulteriormente irrigidita. Emblematico è diventato il caso di Kilmar Abrego Garcia, residente legale di origine salvadoregna tutelato da una sentenza del 2019 che riconosceva il rischio di persecuzione in caso di rimpatrio: nonostante ciò, il 18 marzo 2025 l’uomo è stato deportato in El Salvador e trasferito al mega-carcere CECOT, noto per le condizioni estreme denunciate dalle organizzazioni per i diritti umani.
L’Amministrazione ha giustificato il provvedimento invocando l’Alien Enemies Act del 1798 ed i presunti legami di Abrego Garcia con la gang MS-13, mai suffragati da accuse formali. Il 10 aprile la Corte Suprema ha dichiarato all'unanimità la sua espulsione come illegittima e ordinato all’esecutivo di "intraprendere passi concreti per facilitarne il rientro", ma il Dipartimento per la Sicurezza Interna ha attribuito il mancato ritorno prima ad un "errore amministrativo" e poi alla riluttanza del governo salvadoregno a liberarlo.
L’attenzione mediatica si è così concentrata sulle deportazioni collettive verso il CECOT: fra gennaio e marzo sono stati rimpatriati 238 venezuelani senza precedenti penali né accuse di affiliazione criminale. In risposta, una giudice federale del Colorado ha imposto all’ICE di notificare ogni rimozione con almeno 21 giorni di preavviso e nella lingua madre dell’interessato, dopo numerose denunce sull’uso di procedure accelerate senza adeguata assistenza legale.
Pur di fronte alle critiche di magistratura, organizzazioni civili e opinione pubblica, la Casa Bianca ha comunque ribadito l’obiettivo — estremamente ambizioso — di un milione di espulsioni entro il primo anno e ha chiesto al Congresso fondi aggiuntivi per sostenerne l’attuazione.

Lo scontro con il Congresso sull’uso del potere esecutivo
Il rapporto fra la seconda Amministrazione Trump e il Congresso — anch’esso a maggioranza repubblicana — è segnato da tensioni crescenti proprio sull’immigrazione, oltre che su altri argomenti.
Dopo l’approvazione del Laken Riley Act, una legge che impone la detenzione federale degli immigrati irregolari accusati di determinati reati e autorizza gli Stati a citare in giudizio Washington per la mancata applicazione delle norme, la Casa Bianca sostiene ora un disegno di legge ancor più ampio, in discussione alla Camera, volto a rafforzare la sicurezza delle frontiere e ad accelerare le deportazioni. Benché goda di largo appoggio tra i repubblicani, alcuni parlamentari ne temono però i costi eccessivi e le difficoltà operative.
Anche la politica commerciale alimenta lo scontro tra il potere esecutivo e quello legislativo. I dazi imposti da Trump senza consultare il Congresso hanno, infatti, spinto un fronte bipartisan di membri del Congresso a presentare il Trade Review Act — redatto dalla senatrice democratica Maria Cantwell e dal senatore repubblicano Chuck Grassley — che subordinerebbe l’introduzione di dazi di lunga durata al via libera delle Camere. Il 4 aprile 2025 Trump ha minacciato il veto, definendo la proposta come un’ingerenza eccessiva nelle prerogative presidenziali.
L’abuso di ordini esecutivi suscita allarme anche fra i repubblicani: il senatore del Kentucky Rand Paul ha bollato come "grave errore" la dichiarazione di emergenza nazionale utilizzata da Trump per velocizzare le espulsioni, ricordando che la Costituzione non tollera un simile accentramento di poteri nella figura del presidente.
Infine, il negoziato sul bilancio federale 2025 ha messo in luce profonde spaccature interne al Partito Repubblicano: la Camera spinge per drastici tagli alla spesa e maggiori fondi alla difesa, mentre il Senato preferisce alzare il tetto del debito prorogando soltanto i tagli alle tasse. In questo contesto lo Speaker della Camera Mike Johnson fatica a contenere l’opposizione del Freedom Caucus, decisiva data la maggioranza risicata su cui può fare affidamento, mentre la Casa Bianca si è per ora solo limitata ad auspicare l’approvazione di un pacchetto di legge "grande e bello".
Trump e le corti: si va verso una crisi istituzionale?
Uno dei temi cardine di questi primi mesi è stato anche lo scontro fra potere esecutivo e potere giudiziario. Il casus belli è stata anche in questo caso l'immigrazione, e nello specifico l’espulsione di oltre 250 cittadini venezuelani in applicazione dell’Alien Enemies Act del 1798, normativa pensata per tempi di guerra. Quando un giudice federale ha dichiarato illegittima la procedura, la base trumpiana lo ha sommerso di insulti e lo stesso Trump lo ha definito un "pazzo della sinistra radicale" che meriterebbe l’impeachment insieme ad "altri giudici corrotti".
È dovuto intervenire persino il presidente della Corte Suprema, John Roberts, ribadendo che "l’impeachment non è una risposta appropriata a un dissenso giurisdizionale, per il quale esistono i ricorsi in appello". Il monito di Roberts ha richiamato un principio fondamentale dello Stato di diritto: che si possono criticare le sentenze, ma non mettere in discussione la separazione dei poteri.
Trump, tuttavia, ha rilanciato le accuse: "Abbiamo giudici pessimi e disonesti. Prima o poi dovremo decidere cosa fare con chi è corrotto". Si tratta di un atteggiamento di sfida, analogo a quello che ispira molti suoi ordini esecutivi, più orientato alla mobilitazione politica che al rispetto delle regole democratiche.
Alla base di questa posizione vi è la teoria dell’“Esecutivo Unitario”, formulata da alcuni esponenti dell’Amministrazione Reagan: ciò che il presidente fa è lecito proprio perché lo fa il presidente. Un secondo mandato Trump rischia di spingere questa dottrina verso esiti ancora più autoritari e corrosivi per la Costituzione.
Il sistema americano di pesi e contrappesi è concepito per evitare che un solo ramo del potere diventi troppo forte: quando l’esecutivo tenta di intimidire il giudiziario, quest’ultimo perde autorevolezza e indipendenza. Non sorprende, quindi, l’allarme di Roberts, timoroso che le invettive presidenziali sfocino in una crisi istituzionale. Se la Casa Bianca dovesse continuare ad ignorare le sentenze dei tribunali federali, molte cause finiranno inevitabilmente davanti alla Corte Suprema, con il rischio concreto di una frattura tra i poteri dello Stato.

Il giudizio dei movimenti religiosi sull’operato di Trump
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha rafforzato ulteriormente l’alleanza con l’evangelismo conservatore, come dimostrano fin dalle prime settimane le iniziative della nuova Amministrazione su aborto e diritti LGBTQ+.
Già il 23 gennaio 2025 il Presidente ha ripristinato la Protecting Life in Global Health Assistance Policy (nota anche come “Mexico City Policy”), bloccando i fondi alle ONG straniere che praticano o promuovono l’aborto. Quanto alla pillola abortiva, la Casa Bianca ha avviato la revisione delle norme FDA che consentono la prescrizione telematica e la distribuzione in farmacia del mifepristone; al 28 aprile la procedura è in corso, ma non è stato ancora emanato alcun divieto.
Sul fronte dei diritti LGBTQ+, il Presidente ha emanato un ordine esecutivo che riconosce esclusivamente due generi, definiti dal sesso alla nascita; ha annullato un precedente atto di Joe Biden che proteggeva da discriminazioni basate su identità di genere e orientamento sessuale; si è inoltre opposto alle linee guida scolastiche che ammettevano identità di genere non corrispondenti al sesso biologico, sostenendo al contempo le leggi statali che vietano l’adozione alle coppie dello stesso sesso.
In questo contesto è normale che il sostegno evangelico resti forte, anche se non unanime. Esponenti ultraconservatori come Franklin Graham hanno definito Trump niente meno che "il ritorno del cristianesimo a Washington", mentre all’interno della Southern Baptist Convention figure come Albert Mohler applaudono le politiche anti-aborto; tuttavia altri, come Russell Moore, criticano la retorica presidenziale e invitano la Chiesa a un ruolo profetico e indipendente.
Sul versante opposto, la National Association of Evangelicals ha mantenuto una posizione neutrale, condannando però le separazioni familiari nei rimpatri forzati. Le chiese protestanti mainline — United Church of Christ, Chiesa Episcopale, Chiesa Metodista Unita ed Evangelical Lutheran Church in America — contestano apertamente le misure su immigrazione e sanità, mentre Sojourners, rivista cristiana progressista, mobilita fedeli e opinione pubblica sui temi della giustizia sociale e dei diritti civili.
Le fratture interne al fronte religioso mostrano come, nonostante l’alleanza consolidata tra Casa Bianca ed evangelismo conservatore, il rapporto fra politica e fede resti complesso e in continua evoluzione.