I primi 100 giorni di Trump: una presidenza già in crisi?
Cosa ha fatto Donald Trump dal 20 gennaio. Dai dazi alle mire espansionistiche in Groenlandia passando per il Congresso e il mondo religioso, vediamo cos’è successo in questi cento giorni di presidenza.

Dal 20 gennaio Donald Trump è tornato alla Casa Bianca per il suo secondo mandato presidenziale. Nei primi cento giorni la sua Amministrazione ha preso decisioni controverse e senza precedenti, mettendo subito alla prova la propria stabilità. Fin dalle prime ore è apparso evidente che lo stile non sarebbe cambiato rispetto al primo quadriennio, anzi tutto il contrario: linguaggio muscolare, annunci su social prima dei canali istituzionali e un’agenda-shock in cui politica interna ed estera si intrecciano senza soluzione di continuità.
Che lezione trarre dai primi cento giorni?
I primi cento giorni della presidenza di Donald Trump hanno messo in luce un’Amministrazione che, pur avendo firmato un numero molto limitato di leggi, ha fatto ricorso a un volume inedito di ordini esecutivi. Sul piano dell’opinione pubblica, i dati di sondaggi come quelli del Pew Research Center mostrano uno dei divari di approvazione tra repubblicani e democratici più ampi da quando esistono serie storiche omogenee. Questa polarizzazione — più che un giudizio di merito — è un dato empirico che descrive il clima politico degli Stati Uniti all’inizio del secondo mandato.
Il quadro odierno richiama alla memoria il celebre House Divided Speech pronunciato da Abraham Lincoln il 16 giugno 1858, quando era candidato al Senato dell’Illinois. Lincoln aprì il discorso con il verso evangelico: «Una casa spaccata tra se stessa non può reggersi». Proseguì quindi: "Non mi aspetto che l’Unione si dissolva, non mi aspetto che la casa cada; ma mi aspetto che cessi di essere divisa: diventerà o tutta schiavista o tutta libera".
All’epoca la frattura ruotava attorno alla schiavitù; oggi le linee di faglia riguardano temi quali immigrazione, diritti riproduttivi ed equilibrio fra poteri federali e statali. Il parallelo non è perfetto — mutano contesto storico, attori e posta in gioco — ma il messaggio di fondo resta attuale: un Paese troppo diviso rischia di non essere governabile.
Lincoln credeva che l’Unione potesse superare la crisi a patto di scegliere una direzione netta. Per quanto diversa, la situazione contemporanea sollecita lo stesso interrogativo: fino a che punto le istituzioni americane sapranno assorbire gli urti della dialettica politica? Finora il sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Costituzione ha dimostrato di reggere anche a pressioni intense, confermando la capacità del modello statunitense di produrre correttivi interni senza ricorrere alla rottura dell’ordine costituito.
In definitiva, l’avvertimento morale di Lincoln — la devozione all’uguaglianza come collante nazionale — resta un riferimento utile per leggere anche l’America di oggi. Per quanto profonda possa, ad alcuni, apparire la notte, nulla può impedire al sole di sorgere: la vitalità delle istituzioni democratiche, seppur imperfette, continua a offrire strumenti per affrontare crisi e divisioni, sviluppando "anticorpi" che ne garantiscono la tenuta nel tempo.
