Heritage America, il nuovo slogan identitario della destra radicale americana
La retorica dei “veri americani” si sta affermando anche nelle politiche dell’amministrazione Trump. Sotto il nome di “Heritage America”, si sviluppa una visione identitaria fondata sull’ascendenza anglosassone e sulla negazione del nazionalismo fondato su valori universali.

Nel panorama politico statunitense, una nuova parola d’ordine sta prendendo piede a destra: Heritage American. Un tempo confinato ai margini del dibattito online, il termine è oggi sempre più presente nei discorsi pubblici e nelle politiche dell’amministrazione Trump. Come spiega Politico Magazine, da termine utilizzato per descrivere chi discende direttamente dai coloni anglo-protestanti che popolarono le tredici colonie originarie, il concetto di “Heritage America” ora rappresenta una nuova forma di nazionalismo nativista, che rifiuta l’idea di un’identità americana fondata su principi universali come libertà ed eguaglianza.
Il termine è stato reso popolare da figure come C. Jay Engel, scrittore conservatore e imprenditore, che lo utilizza nel suo profilo su X (ex Twitter): “Heritage American”, prima ancora di “contro-rivoluzionario”. Engel ha contribuito a diffondere l’espressione tra i giovani conservatori della rete, affermando che oggi “giocatori importanti della politica mainstream stanno iniziando ad assorbire alcune delle cose che pensiamo”. Una sensibilità che si riflette anche nei messaggi ufficiali del governo Trump e negli interventi pubblici del vicepresidente JD Vance.
Il concetto di Heritage America si articola su due piani. Da un lato, è una categoria genealogica, che include gli americani con origini risalenti al periodo coloniale, in particolare di ascendenza anglo-protestante e scoto-irlandese. A seconda delle interpretazioni, possono rientrare nella definizione anche i discendenti dei popoli indigeni e degli afroamericani ridotti in schiavitù (i cosiddetti ADOS, American Descendants of Slavery). Ma, come chiarisce Engel, non tutti i bianchi sono heritage Americans: un immigrato svedese di seconda generazione, pur essendo bianco, non lo sarebbe.
Dall’altro lato, Heritage America è anche un’estetica. Come spiega Jon Harris, scrittore e documentarista conservatore, è “un’atmosfera”, costruita attraverso meme e immagini nostalgiche della frontiera americana, da Daniel Boone ai dipinti di Norman Rockwell. Harris, che vanta una discendenza diretta dal padre di Boone, parla di una cultura che esalta il cavaliere, il pioniere, il cowboy. Il tutto nel quadro di una visione eroica e virile del passato americano.
Questo immaginario non è rimasto confinato al web. Nei mesi recenti, ha fatto irruzione nella comunicazione istituzionale. A luglio, il Department of Homeland Security ha pubblicato sul proprio account ufficiale una serie di immagini evocative, come una coppia di pionieri con un neonato in un carro coperto o il celebre dipinto American Progress di John Gast, accompagnate da slogan come “Ricorda il patrimonio della tua patria” e “Un’eredità di cui essere orgogliosi, una patria da difendere”. La portavoce del DHS Tricia McLaughlin ha rivendicato l’iniziativa: “Questa amministrazione è orgogliosa, senza scuse, della storia e del patrimonio americani”.
Il vicepresidente Vance ha articolato il messaggio in modo più esplicito. In un discorso al think tank conservatore Claremont Institute, ha affermato che “l’America non è solo un’idea, ma un luogo particolare con un popolo particolare e un modo di vivere particolare”. Secondo Vance, la mentalità della frontiera è l’eredità lasciata dagli antenati che “hanno domato un continente selvaggio”. In un’intervista con il podcaster Theo Von, Vance ha anche fatto riferimento a un database online che consente di verificare se i propri antenati hanno combattuto nella Guerra Civile americana, strumento divenuto virale negli ambienti conservatori. Per Vance, coloro che hanno antenati che hanno combattuto nelle guerre fondative degli Stati Uniti “hanno molto più diritto di definirsi americani di chi sostiene che loro non appartengano” alla nazione.
Queste affermazioni sono state accolte con entusiasmo negli ambienti nativisti. L’etichetta “JD Vance (R-Heritage America)” è comparsa subito sui social, a indicare il suo allineamento con il movimento. Engel, pur evitando di attribuirsi meriti diretti, sostiene che Vance, insieme a figure come Charlie Kirk, Steve Bannon e Jack Posobiec, “ha il polso delle idee” che circolano in questi ambienti. Posobiec, in un episodio del suo podcast del 4 luglio, ha posto la domanda: “Cosa significa essere americano? Un americano autentico? Un heritage American?”.
Non mancano però le critiche. Ezekiel Kweku, editorialista del New York Times, ha accusato il termine di essere una forma di “lavaggio” del nazionalismo bianco attraverso un linguaggio apparentemente neutro. Altri lo considerano una variante del nazionalismo etnico di tipo “sangue e suolo”. Engel respinge queste accuse, pur riconoscendo che alcuni possono usare il termine in quel modo. Secondo lui, Heritage America non si riduce a razza o etnia, ma propone una via intermedia tra il nazionalismo “creedale” fondato su valori universali e quello puramente etnico.
Le radici ideologiche del movimento attingono a una selezione di testi storici: The Significance of the Frontier in American History di Frederick Jackson Turner, Albion’s Seed di David Hackett Fischer e Who Are We? di Samuel Huntington. Secondo questa narrazione, i coloni anglosassoni portarono con sé dagli arcipelaghi britannici costumi e valori distintivi, che si consolidarono in un’identità americana attraverso l’espansione verso Ovest e il contatto con culture indigene e afroamericane. Questa identità, dicono i sostenitori del movimento, è stata successivamente diluita da un’idea diversa di nazione, prima con il “crogiolo” culturale e poi, dopo il Hart-Cellar Act del 1965, con il nazionalismo “proposizionale”, secondo cui chiunque può essere americano se aderisce a certi ideali.
Il movimento Heritage America mira esplicitamente a invertire questa tendenza. Il programma, pur non dettagliato nei modi, parte da una stretta sull’immigrazione sia irregolare che regolare, fino a limitarla a “pochi paesi selezionati”. Engel sostiene che persone provenienti da Europa occidentale “si adattano meglio allo stile di vita americano” rispetto a chi proviene da Haiti, precisando che si tratta di una differenza culturale, non razziale.
Nonostante le pretese storiche del movimento, gli studiosi ricordano che i coloni originali erano tutt’altro che un blocco omogeneo. I puritani del New England, i gentry della Virginia e gli scoto-irlandesi degli Appalachi costruirono società profondamente diverse tra loro. Inoltre, molti degli elementi che oggi compongono la cultura americana derivano da influenze indigene e immigrate, che i coloni non sempre accolsero ma spesso combatterono.
Engel riconosce la complessità storica, ma insiste sul fatto che ciò che conta è l’eredità trasmessa, più che il rigore delle fonti. “Siamo più influenzati dall’estetica che dai ragionamenti logici”, dice. “Il nazionalismo è una questione dell’anima. Questo dovrebbe essere l’americanismo.”