William McKinley: il presidente che ispira la strategia dei dazi di Trump
Il 47° presidente degli Stati Uniti ha omaggiato William McKinley, leader repubblicano a cavallo tra Ottocento e Novecento noto per l’aumento dei dazi. La nuova stretta voluta da Trump il 2 aprile si richiama apertamente alla sua figura.

Nel suo discorso d’insediamento del 20 gennaio, Donald Trump ha fatto riferimento a una figura politica americana poco nota al grande pubblico, ma centrale per la sua visione economica: William McKinley, presidente degli Stati Uniti dal 1897 al 1901.
Definito «Tariff King» per la sua politica doganale fortemente protezionista, McKinley è diventato oggi un modello per l’attuale inquilino della Casa Bianca, che il 2 aprile ha annunciato una nuova impennata dei dazi verso molti Paesi, proclamando la giornata come «Liberation Day», per poi sospenderli per 90 giorni una settimana dopo.
Il parallelo con McKinley, tuttavia, non è solo simbolico.
Trump ha ripreso esplicitamente lo stile e i principi dell’ex presidente dell’Ohio, celebrandolo per aver reso «molto prospero» il Paese «grazie ai dazi e al suo talento».
All’epoca, le misure protezionistiche volute da McKinley avevano come obiettivo quello di sostenere l’industria manifatturiera americana, allora in piena espansione.
L’aumento dei dazi, secondo la narrativa trumpiana, rappresenta una difesa necessaria della sovranità economica nazionale, in linea con la tradizione avviata oltre un secolo fa.
McKinley fu promotore di due importanti leggi tariffarie: il McKinley Tariff del 1890, che prevedeva un aumento dei dazi fino al 50%, e il Dingley Act, adottato dopo la sua elezione alla presidenza nel 1896, che rafforzava ulteriormente la protezione delle importazioni, colpendo in particolare lana, zucchero e prodotti di lusso.
Queste misure lo resero estremamente popolare tra gli industriali e anche presso ampie fasce della classe operaia, che lo consideravano un difensore del lavoro domestico.
Prima di diventare presidente, McKinley si era distinto per la sua attività da avvocato e per il sostegno alle istanze operaie durante le grandi agitazioni industriali, arrivando a difendere in tribunale dei minatori accusati di violenze durante gli scioperi.
Questo legame con il mondo del lavoro gli conferì una certa legittimità presso la base elettorale repubblicana.
In politica estera, invece, il suo mandato fu segnato da eventi bellici come la guerra ispano-americana, che portò gli Stati Uniti ad acquisire Guam, le Filippine e Porto Rico.
Sebbene non favorevole alla guerra in linea di principio, McKinley fu considerato il primo presidente «imperialista» degli Stati Uniti, sostenendo anche progetti strategici come quello del canale interoceanico di Panama.
Il richiamo di Trump alla figura di McKinley avviene tuttavia in modo selettivo.
Verso la fine della sua carriera politica, McKinley aveva infatti parzialmente rivisto le sue posizioni.
Nel 1901, pochi mesi prima del suo assassinio, durante un discorso a Buffalo, affermò che «le guerre commerciali sono sterili» e sostenne con convinzione i trattati di reciprocità con altri Paesi, come quello firmato con la Francia.
A suggello del suo tributo, Donald Trump ha anche voluto restituire a McKinley l’onore simbolico della vetta più alta del continente nordamericano, ribattezzando Monte McKinley quello che nel 2015 era tornato al suo nome originario di Denali.
È un ulteriore segnale del tentativo di riscrivere una genealogia politica e ideologica che affonda le radici in un’epoca in cui il protezionismo era visto come una strategia di sviluppo nazionale, più che come una minaccia al commercio globale.