Trump usa i dazi per obiettivi di sicurezza nazionale e interessi aziendali
Documenti interni mostrano come l’amministrazione abbia legato le trattative commerciali a richieste militari, politiche e aziendali, spingendo paesi vicini alla Cina a rafforzare i legami di difesa con Washington.

Il presidente Donald Trump ha ampliato l’uso dei dazi come strumento di pressione diplomatica, collegandoli non solo alla riduzione del deficit commerciale ma anche a obiettivi di sicurezza nazionale e interessi di singole aziende statunitensi. Secondo documenti interni del governo ottenuti dal Washington Post, le trattative commerciali sono state utilizzate per spingere paesi alleati e partner a modificare posizioni politiche, rafforzare la cooperazione militare con gli Stati Uniti e concedere vantaggi a specifiche imprese americane.
In un caso recente, il Dipartimento di Stato ha valutato di chiedere ai partner commerciali statunitensi di votare contro un’iniziativa internazionale per ridurre le emissioni delle navi mercantili. Un appunto per il segretario di Stato Marco Rubio suggeriva di inserire la questione nelle negoziazioni con paesi marittimi come Singapore.
Nella primavera scorsa, l’amministrazione ha discusso l’inserimento nei negoziati di richieste come la rimozione del controllo cinese su un porto israeliano e la dichiarazione pubblica del sostegno sudcoreano al dispiegamento di truppe statunitensi contro Cina e Corea del Nord. Nei primi giorni dopo la sospensione dei dazi “reciproci” il 9 aprile, i funzionari statunitensi hanno elaborato piani per convincere paesi vicini alla Cina ad avvicinarsi alla difesa americana, anche attraverso l’acquisto di equipaggiamenti e visite navali.
Trump ha minacciato di imporre dazi del 50% sui beni indiani per costringere Nuova Delhi a fermare l’acquisto di petrolio russo. Gli obiettivi negoziali, in un documento di otto pagine datato 1° maggio, includevano temi non tradizionali per un accordo commerciale, come il basing militare, e la tutela degli interessi di aziende come Chevron e Starlink.
Il documento ha sorpreso funzionari di carriera: “Non è così che funziona normalmente”, ha detto un dipendente del Dipartimento di Stato. Trump, già in passato, ha collegato dazi a questioni non economiche: a gennaio, aveva minacciato la Colombia se non avesse accettato il rimpatrio di migranti; a luglio, il Brasile se non avesse interrotto le indagini su Jair Bolsonaro.
Nei negoziati con Seul, Washington ha chiesto un aumento della spesa per la difesa dal 2,6% al 3,8% del PIL, un contributo maggiore per il mantenimento delle truppe USA e una dichiarazione politica sul posizionamento delle forze per “meglio dissuadere” la Cina.
Molte richieste miravano a contrastare l’influenza cinese. Con la Cambogia, l’obiettivo era ottenere visite regolari della marina statunitense alla base di Ream; con Israele, eliminare la proprietà cinese del porto di Haifa; con l’Australia, un impegno a rivedere la gestione cinese del porto di Darwin. In Africa orientale, gli Stati Uniti volevano impedire alla Cina di stabilire basi militari in Madagascar e rimuovere apparecchiature di Huawei, ZTE e Hikvision dalle reti di Mauritius.
Alcune pressioni puntavano a favorire aziende specifiche: in Lesotho, la richiesta di esenzioni fiscali per OnePower e la deroga a requisiti legali per Starlink; in Israele, evitare regolamenti che obbligassero Chevron a cedere partecipazioni in giacimenti offshore.
Infine, un appunto interno di luglio raccomandava a Rubio di collegare i negoziati commerciali all’opposizione a un accordo dell’International Maritime Organization per ridurre le emissioni navali, definito come una “tassa globale sul carbonio”.
L’amministrazione non ha commentato i documenti, ma ha ribadito che sta usando i negoziati commerciali “per combattere per il popolo americano”.