La svolta di Trump sui dazi: guerra commerciale mirata verso la Cina
Trump fa parzialmente marcia indietro sulle tariffe più aggressive, ma resta un’impostazione restrittiva verso le importazioni. La Cina principale bersaglio, mentre il commercio globale si avvia verso una fase più frammentata e costosa.

Dopo giorni di tensione sui mercati finanziari, l’amministrazione Trump ha rivisto in parte la propria posizione sulle misure commerciali, senza però abbandonare la linea protezionistica che ha già segnato una svolta nella politica economica statunitense. Le tariffe che restano in vigore, infatti, tracciano i contorni di un sistema commerciale mondiale più rigido, segnato da nuove barriere e da una crescente frammentazione.
Se inizialmente il rischio sembrava quello di una guerra commerciale generalizzata contro la maggior parte dei partner degli Stati Uniti, l’attuale strategia mostra un disegno più selettivo. L’accento si sposta su un confronto più diretto e intensificato con la Cina, mentre con altri paesi si mantengono livelli più contenuti di conflitto commerciale. Tuttavia, questo non significa un ritorno alla fluidità che ha caratterizzato il commercio globale degli ultimi decenni: il periodo del libero scambio senza attriti appare definitivamente archiviato.
L’entità e la rapidità con cui si è evoluta la nuova politica commerciale americana negli ultimi mesi – e in particolare negli ultimi otto giorni – non trovano paragoni recenti. Anche dopo il parziale dietrofront, rimane in vigore un dazio minimo del 10% su quasi tutte le merci importate, indipendentemente dalla loro provenienza. Per trovare un’aliquota media di questo livello bisogna tornare al 1943.
Ma è verso la Cina che l’escalation è più marcata: alle tariffe “reciproche” del 125% si aggiungono ulteriori dazi su acciaio, alluminio e automobili. Secondo i calcoli dello Yale Budget Lab, questo porta l’aliquota media effettiva al 25,3%, il valore più alto dal 1909. Anche ipotizzando un progressivo riorientamento del commercio verso paesi con tariffe più basse – come nel caso del Vietnam, che subisce un dazio del 10% – la media si attesterebbe comunque attorno al 18,1%, un livello che non si vedeva dal 1934.
Il grande interrogativo che ha tenuto in sospeso analisti e osservatori economici riguarda la natura stessa di queste misure: sono da intendersi come una leva negoziale, un'esagerazione iniziale pensata per favorire nuovi accordi, o come una svolta strutturale dell’economia globale? Gli ultimi sviluppi suggeriscono che entrambe le interpretazioni contengano elementi di verità.
Da una parte, il presidente Trump ha sospeso temporaneamente – per 90 giorni – i dazi più pesanti verso alcuni paesi, affermando che ben 75 nazioni hanno avviato trattative per un’intesa. Questo scenario supporta l’idea di una strategia fondata sul negoziato. Dall’altra, il mantenimento di un dazio base del 10% segnala l’introduzione di una nuova normalità, in cui le importazioni diventano strutturalmente più costose.
Sebbene distorsiva e onerosa, questa misura resta abbastanza contenuta da permettere alle imprese di adattarsi. Alcune potranno compensarla riducendo i propri margini, altre contrattando prezzi più favorevoli con i fornitori. È comunque una soglia meno allarmante rispetto all’aliquota del 46% inizialmente ipotizzata per il Vietnam.
Il passo indietro annunciato mercoledì suggerisce che, nonostante la retorica aggressiva, la Casa Bianca risponde ancora a dinamiche di mercato. Il calo dei mercati azionari, le pressioni dei dirigenti aziendali e dei leader stranieri, così come la crescente preoccupazione dei parlamentari repubblicani, hanno avuto un impatto visibile. In particolare, l’impennata dei tassi d’interesse a lungo termine e il crollo dei titoli del Tesoro statunitensi hanno sollevato il timore di una compromissione della capacità del governo di finanziarsi. Un segnale che non è sfuggito nemmeno ai rivali geopolitici di Washington, per i quali l’uso dei mercati obbligazionari internazionali come leva strategica non è un concetto nuovo.
Quel che è certo è che l’era del commercio globale come la maggior parte degli statunitensi l’ha conosciuta è terminata. Pur con un livello di discontinuità inferiore a quello temuto solo ventiquattro ore prima, l’economia mondiale entra in una nuova fase, dominata da logiche protezionistiche. E al centro della scena resta la Cina, principale obiettivo della rinnovata politica commerciale americana.