La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti sta già avendo i primi effetti
L'escalation dei dazi tra Washington e Pechino blocca il traffico commerciale e colpisce duramente le imprese cinesi, mentre la Cina tenta di rafforzare l’autosufficienza e Donald Trump punta alla reindustrializzazione americana

Tra Cina e Stati Uniti si sta consolidando un confronto commerciale che ha assunto i contorni di una vera e propria guerra dei nervi. La recente impennata dei dazi ha prodotto effetti immediati: le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti si sono ridotte drasticamente e gli operatori commerciali si trovano a dover cercare mercati alternativi.
L’interruzione è stata repentina. Nei porti cinesi di Shanghaï, tra i più trafficati al mondo, le operazioni di carico verso gli Stati Uniti si sono bruscamente fermate l’11 aprile, giorno dell’entrata in vigore dei nuovi dazi imposti da Washington e delle contromisure di Pechino. Il traffico marittimo tra i due Paesi è crollato: secondo le stime del cabinet Drewry, oltre la metà della capacità di trasporto verso l’America del Nord sarà cancellata nelle prossime settimane. I container restano bloccati nei terminal, mentre i produttori cinesi cercano nuovi sbocchi.
Il livello dei dazi imposti da Donald Trump – saliti al 145% – ha superato ogni precedente, generando un clima di panico tra gli esportatori. In risposta, la Cina ha portato i suoi dazi al 125% e ha dichiarato che non proseguirà nell’escalation, non per allentare la tensione, ma perché a questi livelli le merci statunitensi sono ormai fuori mercato. L’Associazione dell’e-commerce transfrontaliero di Shenzhen segnala che molte aziende, scoraggiate da dazi ormai proibitivi, stanno abbandonando il mercato americano. Circa il 60-70% delle aziende associate esportava verso gli Stati Uniti, in particolare per piattaforme come Amazon e Walmart.
Il colpo è arrivato mentre il settore manifatturiero cinese, già sotto pressione per il rallentamento del mercato immobiliare interno, aveva riconvertito una parte degli investimenti proprio verso l’export. Le fabbriche, spesso piccole e con margini ridotti, si trovano ora in grave difficoltà. La direttrice dell’associazione di Shenzhen, Wang Xin, spiega che molte imprese stanno sospendendo la produzione, in attesa di capire se potranno ricollocare i propri prodotti altrove. La guerra commerciale, avverte, «sta già mettendo a rischio l’occupazione e il funzionamento di numerose fabbriche».
Nonostante la sorpresa iniziale per la rapidità dell’escalation, Pechino si prepara da anni a uno scenario di rottura. Il piano “Made in China 2025”, lanciato un decennio fa, puntava proprio all’autonomia tecnologica e industriale. La crisi attuale rafforza la determinazione del governo cinese in questa direzione. L’isolamento vissuto durante la pandemia e l’invasione russa dell’Ucraina hanno contribuito a consolidare la visione strategica di Xi Jinping, secondo cui la Cina deve ridurre la propria dipendenza dalle catene globali di fornitura.
Il presidente cinese ha ribadito questo approccio durante un incontro con il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez, dichiarando che «lo sviluppo della Cina non è frutto delle concessioni altrui, ma del duro lavoro e dell’indipendenza». Pechino conta anche sull’innovazione domestica: l’arrivo dell’intelligenza artificiale DeepSeek, sviluppata interamente in Cina, ha rafforzato la fiducia nella capacità del Paese di innovare senza supporto esterno.
Dall’altra parte del Pacifico, l’amministrazione Trump mira a ridurre il deficit commerciale e rilanciare la manifattura interna attraverso un deciso disaccoppiamento dalla Cina. Questo obiettivo strategico, però, comporta inevitabili costi: le terre rare, per esempio, continueranno a essere importate dalla Cina, ma a prezzi che alimenteranno l’inflazione negli Stati Uniti.
Per ora, nessuna delle due parti sembra intenzionata a cedere. Ma il disaccoppiamento economico tra le due maggiori potenze globali è ormai una realtà accelerata. Se proseguirà, potrebbe segnare un cambiamento strutturale nel commercio mondiale.