La formula dei dazi di Trump non ha alcun senso economico e contiene anche un errore di calcolo

Le tariffe sono presentate come “reciproche”, ma la formula usata per determinarle è contestata dagli economisti: l’errore di calcolo potrebbe averne quadruplicato l’entità effettiva

La formula dei dazi di Trump non ha alcun senso economico e contiene anche un errore di calcolo

L’Amministrazione Trump questa settimana ha annunciato una nuova ondata di dazi commerciali applicabili a quasi tutti i partner esteri degli Stati Uniti, con aliquote comprese tra il 10% e il 50%.

La decisione è stata giustificata dal presidente come una risposta “reciproca” alle presunte barriere tariffarie e non tariffarie imposte da altri paesi alle esportazioni statunitensi.

Secondo la Casa Bianca, i dazi sono calcolati come la metà delle tariffe e delle barriere commerciali applicate dagli altri paesi contro gli Stati Uniti.

In pratica, però, secondo una analisi del think tank conservatore AEI la formula utilizzata si basa sul deficit commerciale bilaterale degli Stati Uniti, diviso per le importazioni da quel paese e ulteriormente diviso per due.

Se questo tasso risulta inferiore al 10%, viene comunque applicata una tariffa minima del 10%.

Ciò modalità comporta che anche Paesi con cui gli Stati Uniti hanno un surplus commerciale, o con cui non esiste un significativo squilibrio, siano soggetti ad almeno il dazio minimo.

Per esempio, in un caso ipotetico in cui gli Stati Uniti importino beni per 100 milioni di dollari e ne esportino 50 milioni verso un determinato Paese, l’Amministrazione Trump interpreta questa differenza come un dazio implicito del 50% applicato da quel Paese alle esportazioni americane.

Di conseguenza, gli Stati Uniti hanno deciso di applicare un dazio “reciproco” del 25%.

Tale logica, però, presuppone erroneamente che il deficit commerciale sia interamente dovuto a barriere commerciali estere, ignorando fattori strutturali come i flussi di capitale, le catene globali del valore, le condizioni geografiche e i vantaggi comparati.

Oltre alle critiche metodologiche, è emerso un errore specifico nel calcolo dei dazi: l’Amministrazione Trump ha utilizzato un valore di elasticità errato.

Invece dell’elasticità dei prezzi all’importazione rispetto ai dazi, è stata impiegata quella dei prezzi al dettaglio, stimata a 0,25.

Tuttavia, l’articolo scientifico citato come fonte di questo calcolo dalla stessa Casa Bianca – firmato dall’economista Alberto Cavallo e colleghi – indica un’elasticità di circa 0,945, affermando che “i dazi sono trasferiti quasi completamente ai prezzi di importazione statunitensi”, mentre gli effetti sui prezzi al dettaglio risultano meno evidenti.

La conseguenza di questo errore è significativa: i dazi presumibilmente imposti dagli altri Paesi agli Stati Uniti – e quindi quelli “reciprocamente” applicati dall’amministrazione Trump – sono gonfiati di circa quattro volte rispetto al loro livello effettivo.

Una correzione del calcolo porterebbe a una riduzione simmetrica dei dazi americani.

Come indicato nella tabella allegata all’analisi originale dell'AEI, nessun Paese supererebbe un dazio del 14%, mentre la maggior parte si attesterebbe sul livello minimo del 10%.

Gli economisti dell'AEI sottolineano quindi che non solo la formula manca di fondamento nella teoria economica e nel diritto commerciale internazionale, ma anche che la sua applicazione pratica risulta distorta da errori tecnici.

In un contesto economico già fragile, una simile rigidità tariffaria potrebbe amplificare i rischi di recessione.

Al contrario, una revisione della metodologia e un allineamento ai parametri economici corretti potrebbero favorire una parziale liberalizzazione commerciale, stimolando la crescita interna.

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