La fine degli aiuti americani sta avendo un impatto devastante in Africa

Il presidente Donald Trump ha smantellato l’Usaid, riducendo dell’83% i programmi e chiudendo l’agenzia. L’impatto è devastante per l’Africa, dove molti paesi dipendevano dall’assistenza americana per sanità, istruzione e crisi umanitarie.

La fine degli aiuti americani sta avendo un impatto devastante in Africa
USAID

Il presidente Donald Trump dal primo giorno ha avviato una drastica revisione dell’assistenza internazionale, con conseguenze devastanti per l’Africa. Lo smantellamento dell’Usaid – l’agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale creata nel 1961 – e la cancellazione dell’83% dei programmi hanno lasciato milioni di persone senza sostegno in settori cruciali come la sanità, l’istruzione e la sicurezza alimentare.

Il 20 gennaio, appena tornato alla Casa Bianca per il suo secondo mandato, Trump ha sospeso l’aiuto americano, definendo “sprechi” i miliardi di dollari destinati alla cooperazione. Nonostante le proteste di governi e organizzazioni internazionali, il 10 marzo Washington ha confermato la chiusura dell’agenzia senza attendere la revisione di 90 giorni inizialmente prevista. Il 1° luglio l’Usaid ha ufficialmente cessato le attività. Il segretario di Stato Marco Rubio ha sottolineato che, a suo avviso, l’agenzia non ha raggiunto risultati significativi dalla fine della guerra fredda e che l’Africa si è dimostrata “poco riconoscente” verso la generosità americana.

Secondo i dati citati da Rubio, dal 1991 il continente africano ha ricevuto 165 miliardi di dollari di aiuti statunitensi, ma ha sostenuto la posizione di Washington solo nel 29% delle risoluzioni votate all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Questo indicatore, interpretato come una misura della “gratitudine” politica, riflette la visione transazionale di Trump nelle relazioni internazionali, anche con i paesi più poveri.

La nuova linea della Casa Bianca privilegia il commercio e gli investimenti privati rispetto all’assistenza pubblica. Secondo l’amministrazione, lo sviluppo e la riduzione della povertà dipenderanno meno dai finanziamenti statali e più dalla capacità dei paesi di attrarre capitali e imprese, in particolare statunitensi. Nonostante l’obiettivo internazionale di destinare lo 0,7% del PIL all’aiuto pubblico, gli Stati Uniti hanno sempre investito molto meno, fermandosi allo 0,25%. Con la riforma voluta da Trump, i fondi saranno concessi solo a “nazioni capaci di aiutarsi da sole” e con programmi mirati, a tempo limitato.

Le conseguenze di questa scelta sono gravi, soprattutto in Africa, dove l’Usaid garantiva in media un terzo dell’assistenza internazionale. Sei paesi – Etiopia, Sud Sudan, Nigeria, Uganda, Kenya e Repubblica Democratica del Congo – figuravano tra i dieci maggiori destinatari dei finanziamenti statunitensi. La chiusura dell’agenzia ha colpito non solo i programmi bilaterali, ma anche le agenzie delle Nazioni Unite, che hanno perso in media il 25% dei loro fondi, con picchi ancora più alti per alcune di esse.

Il Programma alimentare mondiale (PAM) ha già ridotto le operazioni in Mauritania, Mali e Repubblica Centrafricana. Senza nuovi fondi, le scorte di cibo per i sette paesi dell’Africa occidentale in cui opera si esauriranno entro settembre. La situazione è critica anche sul fronte sanitario: mancano medicinali essenziali per malattie come il paludismo, e i programmi di prevenzione e trattamento dell’HIV sono fortemente rallentati. Solo una parte dei finanziamenti per il Pepfar – il programma globale contro l’AIDS lanciato nel 2003 dal presidente George W. Bush – è stata salvata il 18 luglio grazie a un intervento del Congresso.

Anche le politiche di salute materna e infantile hanno subito un duro colpo, con interruzioni nei servizi di assistenza e vaccinazione. Nei campi profughi e nelle comunità colpite da conflitti interni, la carenza di aiuti rischia di aggravare le condizioni di migliaia di rifugiati e sfollati.

Alcuni leader africani, come il presidente keniota William Ruto e lo zambiano Hakainde Hichilema, hanno interpretato questa crisi come un’occasione per riflettere sulla necessità di maggiore autonomia nello sviluppo economico. Ma la realtà sul terreno resta drammatica: gestire l’impatto immediato del ritiro statunitense è una sfida urgente per governi e organizzazioni umanitarie.

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