La Casa Bianca esige l’abbandono del processo della Corte penale internazionale su Israele
Gli Stati Uniti minacciano nuove sanzioni contro la CPI se non verranno ritirati i mandati d’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti di Benyamin Nétanyahou e Yoav Gallant. Cinque giudici e il procuratore Karim Khan sono già stati sanzionati.

Il governo degli Stati Uniti ha intimato ai 125 Stati parte della Corte penale internazionale (CPI) di interrompere immediatamente tutte le indagini e i procedimenti contro Israele e i suoi dirigenti. L’8 luglio, durante una sessione dell’Assemblea degli Stati parte alla CPI tenutasi presso la sede dell’ONU a New York, il consigliere giuridico del Department of State, Reed Rubinstein, ha rivolto un messaggio esplicito ai delegati presenti: «Ci aspettiamo che tutte le azioni della CPI contro gli Stati Uniti e il nostro alleato Israele – cioè tutte le inchieste e i mandati d’arresto – vengano abbandonate». In caso contrario, ha avvertito, «tutte le opzioni restano sul tavolo».
La dichiarazione si riferisce in particolare ai mandati d’arresto emessi dalla Corte il 21 novembre 2024 nei confronti del primo ministro israeliano Benyamin Nétanyahou e dell’ex ministro della difesa Yoav Gallant, accusati di crimini contro l’umanità e crimini di guerra nella Striscia di Gaza. La CPI ha inoltre aperto inchieste sulla colonizzazione dei territori palestinesi. La posizione americana, ribadita con fermezza, è di totale opposizione a tali procedimenti.
Durante i tre giorni di conferenza (7–9 luglio), gli Stati membri hanno discusso l’ampliamento delle competenze della CPI, in particolare per permetterle di perseguire i responsabili del “crimine di aggressione”, ossia l’attacco a uno Stato sovrano fuori dal mandato ONU e in assenza di autodifesa. Questo reato, indirizzato in primo luogo ai capi di Stato, era stato definito “crimine contro la pace” al processo di Norimberga. Ma Washington ha colto l’occasione per riaffermare la sua linea ostile nei confronti della Corte. «Utilizzeremo tutti gli strumenti diplomatici, politici e giuridici appropriati ed efficaci per bloccare gli abusi di potere della CPI», ha affermato Rubinstein.
Le minacce americane non si limitano alle parole. Da mesi l’amministrazione Trump ha avviato misure sanzionatorie concrete contro i responsabili della Corte. Il 5 giugno, il Department of the Treasury ha incluso nella lista dei soggetti sanzionati quattro giudici della CPI, accusati di aver approvato le indagini sui crimini commessi dall’esercito statunitense e dalla Central Intelligence Agency in Afghanistan e nelle cosiddette “prigioni segrete” europee, oltre che di aver firmato i mandati contro Nétanyahou e Gallant. Già il 6 febbraio il procuratore della Corte, Karim Khan, era stato colpito da sanzioni.
Le reazioni non si sono fatte attendere. Diversi Stati parte hanno espresso preoccupazione durante la sessione dell’8 luglio, sottolineando la necessità che la Corte e i suoi funzionari possano svolgere il proprio mandato senza pressioni esterne. Alcuni hanno richiamato l’attenzione sul rischio penale per chiunque tenti di “ostacolare o intimidire un funzionario della Corte”, un reato che può comportare fino a cinque anni di reclusione e sanzioni pecuniarie. Finora, le misure americane si sono concentrate su individui, ma giuristi e diplomatici temono un’estensione delle sanzioni all’intera istituzione e a coloro che vi collaborano.
Il 10 luglio, Marco Rubio, segretario di Stato dell’amministrazione Trump, ha annunciato l’estensione delle sanzioni a Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati. La giurista italiana è accusata di «sforzi illegittimi e vergognosi per incitare la CPI ad agire contro funzionari, imprese e dirigenti americani e israeliani». Il riferimento è a un suo rapporto del 30 giugno, in cui denunciava l’“economia del genocidio” a Gaza, mettendo in guardia circa sessanta aziende dal rischio di complicità penale nei crimini israeliani.
Il confronto con la CPI si inserisce in un contesto storico di opposizione statunitense all’organo giudiziario dell’Aia. Gli Stati Uniti non hanno mai ratificato lo Statuto di Roma, fondamento giuridico della Corte, e ne contestano da tempo l’autorità, in particolare quando coinvolge cittadini americani o alleati strategici come Israele. Durante la riunione a New York, Rubinstein ha ribadito che gli Stati Uniti non riconoscono la legittimità della Corte a giudicare crimini di aggressione. Con loro, anche Cina, Francia, Regno Unito e Russia, tutti membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU, si sono dichiarati contrari all’estensione delle competenze della CPI.
Il dibattito attuale riprende questioni sollevate già nella conferenza diplomatica di Kampala del 2010, dove fu adottata una definizione giuridica del crimine di aggressione. Tuttavia, le norme della CPI rendono impraticabile la sua applicazione se non vi è consenso da parte sia dello Stato aggressore sia dello Stato aggredito. In questo quadro, è difficile immaginare che la Russia dia il via libera a procedimenti contro Vladimir Putin per l’invasione dell’Ucraina. Per superare questo limite, il Consiglio d’Europa sta preparando la creazione di un tribunale ad hoc per giudicare i crimini di aggressione russi. Dopo tre anni di trattative, rallentate anche da opposizioni britanniche, francesi e americane, l’adozione dello statuto del nuovo tribunale è attesa entro la fine del 2025. Tuttavia, il progetto non revoca l’immunità del capo di Stato russo, che non potrà essere perseguito finché resterà in carica.
A margine della conferenza, l’avvocata ucraina Oleksandra Matviichuk, presidente dell’ONG Centre for Civil Liberties e Premio Nobel per la pace 2022, ha dichiarato che l’aggressione russa rappresenta una violazione flagrante della sovranità dell’Ucraina e della Carta dell’ONU. «È un crimine sistematico che colpisce la vita di ogni ucraino», ha affermato, sottolineando l’urgenza di strumenti giuridici internazionali efficaci per contrastare l’impunità dei crimini di aggressione.