Industria petrolifera americana in frenata: pesano dazi, prezzi bassi e concorrenza Opec+

Nonostante le promesse elettorali di rilancio, le compagnie americane riducono le trivellazioni. Pesano prezzi bassi, dazi e concorrenza dei paesi Opec+

Industria petrolifera americana in frenata: pesano dazi, prezzi bassi e concorrenza Opec+
Photo by Zbynek Burival / Unsplash

Il 2025 potrebbe rappresentare un punto di svolta per l’industria petrolifera statunitense: secondo le stime attuali, sarà il primo anno dal 2015 in cui la produzione di greggio degli Stati Uniti registrerà un calo, escludendo il 2020 segnato dalla pandemia. Una prospettiva in netto contrasto con le promesse elettorali del presidente Donald Trump, che durante la campagna aveva rilanciato lo slogan “drill, baby, drill”.

Secondo i dati forniti dalla compagnia di servizi Baker Hughes, la scorsa settimana erano attivi 553 impianti di trivellazione sul territorio statunitense, dieci in meno rispetto alla settimana precedente e 26 in meno rispetto allo stesso periodo del 2024. Parallelamente, le previsioni elaborate da S&P Global Commodity Insights indicano una contrazione dell’1,1% della produzione complessiva per l’anno in corso, pari a 13,3 milioni di barili al giorno.

A ostacolare l’espansione del settore contribuiscono vari fattori, a partire dall’aumento dei costi dovuto ai dazi sulle importazioni – tra cui un prelievo del 25% sull’acciaio – introdotti nel contesto della guerra commerciale avviata dalla stessa amministrazione Trump. A ciò si aggiunge la pressione esercitata dallo stesso presidente sui paesi Opec+, che ha favorito un incremento dell’offerta globale, contribuendo così alla caduta dei prezzi e alla riduzione dei margini per le compagnie americane.

Nonostante gli impegni dichiarati per rimuovere le restrizioni normative ereditate dall’amministrazione Biden, finora il processo di deregolamentazione si è limitato a interventi puntuali, senza generare un cambiamento strutturale del contesto regolatorio.

Il prezzo del petrolio West Texas Intermediate (WTI), punto di riferimento per il mercato statunitense, è sceso all’inizio di maggio fino a sfiorare i 57 dollari al barile. In parallelo, il Brent è scivolato a 60 dollari. All’inizio della settimana corrente, i due tipi di greggio venivano scambiati rispettivamente a 61,8 e 65,2 dollari. Secondo un’indagine trimestrale condotta dalla Federal Reserve Bank di Kansas, per garantire una redditività sostenibile dei giacimenti attualmente in attività, le compagnie necessitano di un prezzo medio del WTI pari ad almeno 65 dollari al barile. Per incentivare un’espansione significativa dell’attività di trivellazione, invece, servirebbe un livello minimo di 85 dollari.

“Non si può avere il petrolio a 50 dollari e ‘trivellare, piccola, trivella’. Queste due cose sono incompatibili”, ha dichiarato a Bloomberg Andy Hendricks, amministratore delegato della Patterson-UTI Energy, una delle principali aziende americane nel settore dei servizi di trivellazione. Gli investimenti di capitale per il 2025 erano stati pianificati ipotizzando un prezzo medio di 68 dollari, secondo quanto rilevato da un sondaggio della Federal Reserve Bank di Dallas.

Sul fronte internazionale, i paesi aderenti al cartello Opec+ stanno invece incrementando la propria produzione, anche in risposta agli appelli lanciati dallo stesso presidente Trump. Paesi come Kazakistan e Iraq hanno cessato di rispettare le quote stabilite, mentre l’Arabia Saudita ha promosso una serie di decisioni mirate ad aumentare l’offerta. Complessivamente, il cartello e i suoi alleati hanno già stabilito un incremento della produzione di 411.000 barili al giorno nei mesi di maggio e giugno, corrispondente a circa l’1% del volume attuale dell’Opec+.

“L’Arabia Saudita sta cercando di riconquistare la sua quota di mercato e probabilmente la otterrà nei prossimi cinque anni”, ha affermato al Financial Times Scott Sheffield, ex amministratore delegato di Pioneer Natural Resources, una delle maggiori aziende del settore dello scisto. Secondo Sheffield, un’ulteriore discesa dei prezzi fino a 50 dollari al barile potrebbe portare a una riduzione della produzione giornaliera statunitense pari a 300.000 barili.

Nel frattempo, i paesi del cartello stanno valutando la possibilità di introdurre un ulteriore aumento della produzione già a luglio. Secondo quanto riportato da Bloomberg la scorsa settimana, i delegati stanno discutendo un incremento di altri 411.000 barili al giorno, triplo rispetto a quanto inizialmente previsto. La decisione definitiva è attesa per l’incontro dell’Opec+ programmato per il 1° giugno.

La pressione sui mercati internazionali ha contribuito a deprimere ulteriormente le quotazioni anche dei tipi di greggio russi. L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha comunicato che il prezzo medio del petrolio russo ad aprile è stato di 55,64 dollari al barile, con tutte le principali tipologie di esportazione al di sotto del tetto dei 60 dollari.

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