Il porto di Los Angeles si sta fermando a causa dei dazi di Trump
La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina colpisce duramente la costa ovest: porti semi-deserti, container fermi, migliaia di lavoratori a rischio. L’importazione crolla sotto il peso dei dazi al 145%.

Il porto di Los Angeles, il principale degli Stati Uniti, è insolitamente silenzioso. Più della metà degli attracchi per container è vuota, e le gru per il carico e scarico sono ferme. Le conseguenze dei dazi commerciali imposti dal presidente Donald Trump si stanno vedendo in tutta la loro forza, spiega il Washington Post.
Il numero di container arrivati al porto la scorsa settimana è stato di circa un terzo inferiore rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, un calo persino più marcato rispetto ai livelli registrati durante la Grande Recessione. Più del 20% delle navi cargo previste ha già annullato la propria tappa a Los Angeles, e il numero è destinato ad aumentare.
I dazi del 145% imposti sui beni cinesi – e le ritorsioni di Pechino, anch’esse a tre cifre – stanno interrompendo il flusso di merci tra le due principali economie mondiali. L’effetto è visibile non solo sulle banchine, ma lungo tutta la catena logistica: dai magazzini ai camionisti, fino agli scaffali dei negozi.
Joseph Gregorio Jr., direttore operativo della Pacific Companies, azienda attiva nel trasporto e nella movimentazione merci, descrive una situazione allarmante: «Non credo che il consumatore possa reggere ancora a lungo. Tra 60 o 90 giorni potremmo non avere abbastanza prodotti sugli scaffali».
Mentre i negoziatori statunitensi e cinesi si sono incontrati in Svizzera nel tentativo di ridurre le tensioni, i lavoratori portuali vedono diminuire le ore lavorate. Alcuni autotrasportatori, incapaci di sostenere i costi dei veicoli in eccesso, stanno restituendo i mezzi alle banche.
Dopo una crescita del 5,5% registrata in aprile, le importazioni di container a Los Angeles sono previste in calo del 25% a maggio. Il brusco cambiamento segna il passaggio da un sistema commerciale globale che, secondo il presidente, danneggiava l’economia americana, a una nuova era di autosufficienza produttiva.
Mark Muro, esperto della Brookings Institution, sottolinea che una tale trasformazione avrà effetti geografici ben definiti: «Le aree costiere, più “blu”, subiranno maggiori danni, mentre le aree più “rosse” potrebbero beneficiare della costruzione di nuovi impianti industriali».
L’impatto sull’occupazione è significativo. Gene Seroka, direttore esecutivo del porto di Los Angeles, ricorda che un posto di lavoro su nove nella regione metropolitana a sud della California dipende dal traffico merci: oltre un milione di persone tra spedizionieri, magazzinieri, camionisti e portuali.
Brandi Good, vicepresidente della Local 13 dell’International Longshore and Warehouse Union, conferma che gli effetti si fanno già sentire. I primi a perdere ore di lavoro sono i “casuals”, lavoratori a chiamata senza garanzie contrattuali. Anche i dipendenti a tempo pieno stanno vedendo una riduzione dei turni o vengono assegnati a mansioni meno remunerative.
Venerdì scorso, solo 33 squadre di lavoratori portuali erano in attività, contro le 50 di metà aprile. Secondo Sal DiCostanzo, referente del sindacato per il porto, l’incertezza sta generando crescente ansia: «Più il porto si ferma, maggiore sarà la preoccupazione. E non sappiamo quando finirà».
Il presidente Trump ha minimizzato le difficoltà, definendo il rallentamento «una cosa buona» poiché segna la fine del commercio “ingiusto” con la Cina. Le sue politiche tariffarie stanno bloccando l’arrivo di merci economiche “made in China”, in modo mai visto da quando Pechino è entrata nel sistema commerciale globale nel 2001.
Nel frattempo, le fabbriche cinesi continuano a produrre, ma sempre meno per il mercato statunitense. Le esportazioni totali della Cina in aprile sono aumentate dell’8% rispetto all’anno precedente, ma quelle dirette agli Stati Uniti sono diminuite del 21%.
La possibilità che i dazi vengano ridotti a un comunque elevato 80% non è sufficiente per convincere gli importatori a riprendere le normali operazioni. Alcuni rivenditori, come un’azienda di apparecchiature audio, hanno sospeso gli ordini, sperando in un’inversione di rotta. Le tariffe sui prodotti accumulati in fabbrica in Cina supererebbero il milione di dollari, un onere insostenibile per una piccola impresa.
Anche se Trump dovesse eliminare i dazi più alti, secondo molti analisti resterà in vigore una tariffa universale del 10%. Considerando che quasi la metà delle merci in arrivo a Los Angeles è di origine cinese, il futuro del traffico commerciale resta incerto. Seroka osserva: «Se rallenta il commercio globale, rallentano anche le economie. E il 70% della nostra economia si basa sui consumi. Anche quelli diminuiranno».
Gregorio riferisce che tutte le linee di business della sua azienda – trasporti, noleggio mezzi, manutenzione e stoccaggio – hanno subito un calo del 30%. Fondata nel 1990 da suo padre, la Pacific Companies ha superato diverse crisi economiche, ma la natura politica di questa crisi la rende diversa: «Non ce l’aspettavamo. Siamo in una situazione difficile».
Altri segnali di stallo si osservano alla Waterfront Logistics, dove centinaia di container giacciono inutilizzati. Il direttore strategico Weston LaBar mostra un monitor con il conteggio dei container presenti nel sito: 1.564 contro i consueti 3.000.
Per far fronte alla crisi, LaBar ha diversificato i clienti, puntando meno sui beni di consumo e più su pannelli solari e acciaio. Tuttavia, l’imprevedibilità della situazione complica la pianificazione: «Non sapere se durerà due settimane, sei mesi o per sempre rende tutto più difficile».
Nel settore dei trasporti, la competizione si è fatta estrema. Molte piccole imprese di autotrasporto sono fallite, secondo la rivista FreightWaves, mentre le azioni di grandi compagnie come J.B. Hunt e Schneider National hanno perso oltre il 20% dall’inizio dell’anno.
Robert Loya, direttore operativo della TGS Logistics di Fresno, ha già licenziato 26 dipendenti negli ultimi tre mesi. Per contenere i costi, ha cancellato l’acquisto di nuovi camion e valuta il trasferimento di alcune attività amministrative all’estero.
«In questo momento stiamo soffrendo. Forse durerà tre o sei mesi. Speriamo che l’obiettivo venga raggiunto. Ma intanto dobbiamo capire come sopravvivere», conclude.