Il piano manifatturiero di Trump rischia di impoverire gli Stati Uniti
Secondo l’analisi di Tej Parikh sul Financial Times, la strategia del presidente di riportare in patria i posti di lavoro nelle fabbriche va contro decenni di progresso economico.

In un'analisi pubblicata recentemente sul Financial Times, Tej Parikh sostiene che la visione del presidente Donald Trump di trasformare l'America in una "superpotenza manifatturiera" potrebbe avere conseguenze negative per l'economia statunitense.
Nonostante la recente sospensione dei piani per i dazi "reciproci", l'Amministrazione mantiene l'obiettivo di rilanciare il settore manifatturiero americano, una strategia che secondo Parikh va contro il modello economico basato sui servizi e sull'innovazione che ha guidato la crescita americana negli ultimi decenni.
La promessa del ritorno al passato industriale
Nel suo discorso del 2 aprile, Trump ha dato voce a Brian Pannebecker, un ex operaio del settore automobilistico:
"Ho visto chiudere uno stabilimento dopo l'altro a Detroit. Le politiche sui dazi del presidente riporteranno la produzione in quegli stabilimenti sottoutilizzati".
Questa nostalgia per un'America manifatturiera si basa su una realtà innegabile: negli ultimi quattro decenni, i posti di lavoro nel settore sono diminuiti drasticamente mentre la disuguaglianza economica è aumentata.
Una ricerca condotta da Jim Reid di Deutsche Bank, citata da Parikh, evidenzia come il rapporto ricchezza/reddito degli Stati Uniti tenda a seguire l'andamento del commercio internazionale, con i benefici della globalizzazione che sono andati principalmente agli azionisti.
Le sfide del piano
Per sostenere i piani del presidente, secondo Parikh, bisogna credere che l'America possa e debba riportare in patria posti di lavoro ad alta intensità di manodopera, e che i dazi siano il modo migliore per farlo.
Il segretario al Commercio Howard Lutnick ha esplicitato l'ambizione:
"L'esercito di milioni di esseri umani che avvitano piccole viti per produrre iPhone arriverà in America".
Ma l'analisi del Financial Times evidenzia due ostacoli principali: pochi americani vogliono lavorare nell'industria (un sondaggio Cato del 2024 ha rilevato che solo un americano su quattro crede che starebbe meglio in una fabbrica) e i costi di trasferimento della produzione sono enormi (Dan Ives di Wedbush ha stimato che Apple avrebbe bisogno di almeno tre anni e 30 miliardi di dollari solo per spostare un decimo della sua catena di fornitura dall'Asia agli USA).
Parikh sottolinea che, concentrandosi sulla perdita di posti di lavoro nelle fabbriche e cercando di frenare l'apertura commerciale, si oscurano i maggiori benefici economici derivati dalla globalizzazione. La produzione manifatturiera statunitense è in realtà aumentata negli ultimi quattro decenni, anche se i posti di lavoro sono diminuiti, perché l'industria americana è diventata più produttiva, producendo beni di maggior valore con meno lavoratori e più tecnologia.
Misurata dal valore aggiunto per lavoratore, la produzione manifatturiera statunitense si classifica al primo posto tra le principali economie, quasi sette volte quella della Cina. Secondo la maggior parte delle misurazioni, l'America è già "una superpotenza manifatturiera", seconda solo alla Cina nella quota di produzione globale.
Dal 1990 l'America ha perso oltre 5 milioni di posti di lavoro manifatturieri, ma ha guadagnato 11,8 milioni di ruoli nei servizi professionali e 3,3 milioni nelle attività logistiche legate alle catene di approvvigionamento globali.
Le conseguenze economiche della politica protezionistica
Secondo l'analisi del Financial Times, se l'obiettivo dei dazi è riportare in patria le attività ad alta intensità di manodopera, questo avverrà a scapito delle attività a maggior valore aggiunto. Le aziende americane dovranno spostare risorse dalla ricerca e sviluppo verso la produzione, accettando costi più elevati che si tradurranno in prezzi maggiori per i consumatori.
Parikh cita una ricerca della Tax Foundation che evidenzia come i dazi di Trump su acciaio e alluminio durante il suo primo mandato abbiano aumentato i costi di produzione, ridotto l'occupazione e danneggiato le esportazioni. Il Peterson Institute ha stimato che il costo per "salvare" un singolo posto di lavoro nelle industrie dell'acciaio era di circa 650.000 dollari.
L'articolo del Financial Times propone alternative al protezionismo. Kyle Handley dell'Università della California sostiene che sia meglio aiutare persone e imprese ad adattarsi più rapidamente piuttosto che proteggere i vecchi posti di lavoro. Questo includerebbe l'allentamento delle regole di pianificazione, incentivi per investimenti nell'economia reale e iniziative di riqualificazione professionale.
Per Parikh, la globalizzazione è diventata un comodo capro espiatorio per le carenze delle politiche interne americane. Risolvere questi problemi incentiverebbe più investimenti e creazione di posti di lavoro rispetto al protezionismo.
L'analisi si conclude sostenendo che il piano di Trump equivale a riportare l'America indietro di diversi decenni, rendendo potenzialmente la nazione nel suo complesso più povera.