I Repubblicani vinceranno davvero grazie al gerrymandering?
Repubblicani e democratici approvano piani contrapposti che potrebbero spostare fino a nove seggi. L’analisi di G. Elliott Morris mostra come i nuovi confini influenzino le possibilità di vittoria nel 2026.

Il 20 agosto i repubblicani del Texas hanno approvato una nuova mappa elettorale che potrebbe ridurre la rappresentanza democratica alla Camera di 3-5 seggi nelle elezioni di metà mandato del 2026. L’autore del piano, il deputato statale Todd Hunter, ha dichiarato che «l’obiettivo è semplice: migliorare le performance politiche repubblicane».
Poche ore dopo, il presidente Donald Trump ha rilanciato sui social la richiesta di eliminare il voto per corrispondenza e di ridisegnare altre mappe, con l’obiettivo dichiarato di guadagnare «100 seggi in più». Trump sta inoltre facendo pressione su legislature di Stati come Indiana, Florida, Missouri e Ohio perché approvino piani simili, convocando i parlamentari direttamente alla Casa Bianca.
Il giorno successivo, il 21 agosto, la risposta democratica è arrivata dalla California. Il governatore Gavin Newsom ha firmato una legge che convoca per novembre un referendum straordinario. L’elettorato sarà chiamato ad approvare una nuova mappa in grado di compensare la perdita in Texas. Se passerà, la riforma sposterà 3-5 seggi verso i democratici. Il leader repubblicano dell’assemblea californiana, James Gallagher, ha criticato l’iniziativa avversaria avvertendo che «si combatte il fuoco con il fuoco, e il risultato è bruciare tutto».
Questa pratica, nota come gerrymandering, consiste nel disegnare distretti che “spacchettano” gli elettori avversari dividendoli in più aree dove non riescono a prevalere, oppure li “compattano” in un solo distretto così da limitarne l’influenza complessiva. Si tratta di una manipolazione che altera il principio “una persona, un voto”, riducendo la reale competitività delle elezioni.
A spiegare le implicazioni per il 2026 è G. Elliott Morris, giornalista e analista di dati politici che scrive sulla newsletter Strength In Numbers. Morris evidenzia come i nuovi confini decisi dai repubblicani rappresentano un’alterazione delle regole di base: i distretti dovrebbero essere ridisegnati una volta per decennio, dopo il Censimento, e non a metà ciclo su richiesta del presidente. Questa prassi mina la stabilità e l’equità del sistema.
Lo scenario elettorale cambia sensibilmente a seconda delle mappe. Nel migliore dei casi per i democratici, i cambiamenti sarebbero: +3 seggi per i repubblicani in Texas, +5 per i democratici in California, +1 per i repubblicani in Indiana, +1 in Ohio, +3 in Florida e +1 in Missouri. Il bilancio netto sarebbe +4 per i repubblicani. Nel peggiore, invece, i repubblicani otterrebbero +5 in Texas, +1 in Indiana, +2 in Ohio, +3 in Florida e +1 in Missouri, mentre i democratici guadagnerebbero solo +3 in California. In questo caso, il saldo sarebbe +9 per i repubblicani.
La simulazione mostra che, con le mappe del 2024, i democratici avrebbero potuto conquistare la Camera anche perdendo il voto popolare nazionale di 1,5 punti. Ma con una perdita netta di 4 o 9 seggi, la situazione cambia: per ottenere la maggioranza, dovranno vincere il voto popolare con un margine di 1,3 punti nello scenario peggiore.
Le stime non considerano eventuali decisioni della Corte Suprema sul Voting Rights Act, che potrebbero aprire a ulteriori riorganizzazioni nei distretti del Sud, alterando radicalmente i rapporti di forza.
Il messaggio di fondo, conclude Morris, è che i gerrymander repubblicani rendono più difficile la riconquista della Camera per i democratici nel 2026, ma non la rendono impossibile. Anche nello scenario più sfavorevole, se manterranno l’attuale vantaggio medio nei sondaggi (+3,3 punti), avranno buone probabilità di maggioranza. Tuttavia, l’escalation di ridisegni a fini di parte indebolisce la rappresentanza democratica. I veri sconfitti, sottolinea l’analista, sono gli elettori, che si vedono sottrarre la possibilità di scegliere in distretti equi e stabili.
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