Come la guerra commerciale di Trump rischia di affondare l’export gastronomico italiano

Le grandi aziende di macchinari e farmaci possono schivare i dazi, ma i prodotti regionali come il Prosecco e il Pecorino sono prigionieri della loro autenticità.

Come la guerra commerciale di Trump rischia di affondare l’export gastronomico italiano
Photo by Caroline Roose / Unsplash

Nel cuore dell’estate, mentre le vigne di Valdobbiadene bruciano sotto il sole e i caseifici della Sardegna scrutano le esportazioni con crescente inquietudine, è arrivato l’annuncio: a partire dal 1° agosto, gli Stati Uniti applicheranno un dazio del 30% su una lunga lista di importazioni europee. Ad annunciarlo, ancora una volta, è il presidente Donald J. Trump. Il messaggio è chiaro: l’America First non è mai andato in vacanza.

Il grosso dell’export italiano verso gli Stati Uniti — oltre 40 miliardi di dollari l’anno — è costituito da macchinari, farmaci, veicoli e componenti industriali. In questi settori, molte delle grandi aziende italiane hanno imparato da tempo a proteggersi: impianti produttivi in loco, e catene di fornitura che consentono di etichettare “Made in USA” e sottrarsi ai dazi.

Esiste però una parte più fragile e profondamente identitaria dell’export italiano che non può cambiare passaporto: quella dei prodotti agroalimentari a Denominazione di Origine Protetta. Il Pecorino Romano non può essere prodotto altrove. Un prosciutto di Parma non si improvvisa in Pennsylvania. E le colline del Prosecco non si trapiantano, nemmeno nella Napa Valley.

Il prezzo dell’autenticità

I gioielli del patrimonio gastronomico italiano — Prosciutto di Parma, Pecorino Romano, Parmigiano Reggiano — sono ciò che sono grazie a una combinazione irripetibile di luogo, tecnica e tempo. Non esistono senza il microclima che li ha forgiati, né senza le regole che li governano. Sono prodotti a Denominazione di Origine Protetta (DOP), riconoscimento che impone che ogni fase, dalla materia prima al confezionamento, avvenga in territori ben definiti, con metodi tramandati e disciplinari severi.

In Italia si contano 583 prodotti DOP, a cui si aggiungono 266 IGP (Indicazione Geografica Protetta). A fare la differenza è il grado di radicamento nel territorio: per un IGP è sufficiente che almeno una fase della produzione si svolga in una certa area; per un DOP, tutto — davvero tutto — deve restare dentro i confini indicati dal disciplinare.

L’Unione Europea ha creato questi marchi per proteggere il patrimonio alimentare da un mondo che tende all’omologazione. Ma in un contesto di guerre commerciali, questa stessa rigidità diventa un limite. 

Secondo il rapporto annuale del Dipartimento dell’Agricoltura statunitense (USDA), nel 2024 le esportazioni alimentari italiane verso gli Stati Uniti hanno raggiunto i 9 miliardi di dollari. 

Con l’introduzione delle nuove tariffe, Coldiretti stima una perdita di 2,3 miliardi di euro nel 2025, con crolli stimati del 45% per i formaggi, del 35% per il vino, del 42% per i pomodori lavorati e del 36% per la pasta ripiena.

Gianni Maoddi, presidente del Consorzio di Tutela del Pecorino Romano, ha dichiarato a Reuters che il mercato statunitense rappresenta circa il 40% delle esportazioni annuali del formaggio. Il vero pericolo, secondo Maoddi, è che con l’introduzione dei nuovi dazi i grandi acquirenti industriali — che costituiscono la fetta principale delle vendite — decidano che il Pecorino Romano non è più economicamente sostenibile e scelgano di rinunciarvi.

Le aziende americane si sfregano le mani

«Imporre dazi al 30% sui prodotti agroalimentari europei – e quindi italiani – sarebbe un colpo durissimo all’economia reale e ai consumatori americani», avverte Ettore Prandini, presidente di Coldiretti. Ma mentre in Italia si teme il tracollo, oltreoceano qualcuno già intravede un’opportunità.

In California, l’azienda Rack & Riddle ha annunciato a marzo il lancio del “CalSecco”: uno spumante americano dal nome ammiccante, marchio registrato, venduto a 18 dollari a bottiglia. Un Prosecco senza denominazione, senza colline venete, ma con il vantaggio di essere immune dai dazi. 

Secondo Coldiretti, il mercato globale dei falsi vini italiani vale già oltre un miliardo di euro. E le nuove tariffe potrebbero agire da catalizzatore. Il Wine Council stima che un’eventuale tariffa del 200% sul vino europeo farebbe sparire fino al 70–80% del vino italiano dalle tavole americane.

Di fronte a questo scenario, i produttori statunitensi osservano con interesse — se non con entusiasmo. Anche prima della guerra dei dazi, i prodotti italiani erano considerati articoli di nicchia, spesso relegati agli scaffali gourmet e accompagnati da prezzi non sempre accessibili. A fianco delle bottiglie di olio extravergine DOP e dei pomodori autentici, hanno fatto la loro comparsa alternative americane più economiche, che strizzano l’occhio all’Italia con etichette tricolore, nomi ammiccanti e paesaggi collinari stampati sul barattolo.

Prego, marchio di proprietà della Campbell’s, vende salsa di pomodoro con parole italiane, font calligrafici e immagini evocative. L’unica cosa davvero italiana è il nome. Prego, appunto. Di nulla. 

Anche i pomodori San Marzano sono oggetto di imitazione. Nei supermercati statunitensi abbondano le lattine etichettate come “San Marzano-style”, spesso prodotte in California o in altri stati, senza alcun riconoscimento DOP. 

In Rhode Island, Daniele, Inc. produce salumi "all’italiana" da decenni. Il loro prosciutto imita da vicino l’aspetto di quello di Parma: stessa forma, stesso colore, stesso taglio sottile. Ma non c’è certificazione DOP: tutto viene prodotto con suini allevati negli Stati Uniti. 

Sul fronte dei formaggi, la confusione è persino più radicata. Negli Stati Uniti, il termine “Parmesan” non è legalmente protetto. Può essere usato liberamente per etichettare formaggi duri e grattugiati, spesso realizzati con latte pastorizzato e senza alcun legame con la zona d’origine del Parmigiano Reggiano. 

In Wisconsin, l’azienda BelGioioso produce burrata, stracciatella, American Grana, Gorgonzola e Asiago, tutto rigorosamente made in USA. I puristi in Italia arricciano il naso. Ma per il consumatore americano, spesso, la differenza è impercettibile. E in un mercato dove il prezzo rischia di contare più dell’origine, questo basta e avanza.

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