Trump vuole limitare i poteri dei giudici federali

Una nuova legge approvata dalla Camera mina il potere dei giudici di sospendere le misure dell’esecutivo. Trump e i repubblicani puntano alle "injonctions nationales", uno strumento giuridico ora sotto attacco politico e costituzionale.

Trump vuole limitare i poteri dei giudici federali
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Il 22 maggio 2025, la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato la legge di bilancio Big Beautiful Bill, che contiene una misura controversa inserita nella sezione 70 302. Questa disposizione, passata quasi inosservata tra i capitoli del bilancio, propone una limitazione significativa ai poteri coercitivi dei tribunali federali. Se confermata dal Senato, impedirebbe ai giudici di utilizzare fondi pubblici per far rispettare un’ingiunzione o un’ordinanza restrittiva a meno che la parte ricorrente non abbia versato una cauzione al momento dell’emissione dell’atto giudiziario.

Secondo molti giuristi, si tratterebbe di una misura che, di fatto, priva i giudici del potere di far applicare le loro decisioni, trasformando le ingiunzioni in semplici raccomandazioni. Erwin Chemerinsky, decano della facoltà di giurisprudenza dell’Università della California a Berkeley, avverte che le ordinanze rischierebbero di "diventare semplici avvisi consultivi che le parti sarebbero libere di ignorare". Per Robert Reich, economista ed ex segretario al lavoro, questa norma “farebbe di Trump un re”, non più vincolabile da un Congresso che non può contare sull’appoggio dei tribunali.

Questa disposizione si inserisce in un’offensiva più ampia dell’amministrazione Trump e dei suoi alleati contro il potere giudiziario federale, e in particolare contro le ingiunzioni di validità nazionale che permettono a un giudice federale di sospendere l’applicazione di un decreto presidenziale o di una legge su tutto il territorio degli Stati Uniti.

Dal 20 gennaio 2025, data del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, queste ingiunzioni sono diventate lo strumento principale dell’opposizione per bloccare l’attività dell’esecutivo. Nei primi cento giorni del mandato del presidente, il Congressional Research Service (CRS) ne ha contate 25, contro le 6 dello stesso periodo del suo primo mandato nel 2017 e le 4 nei primi cento giorni dell’amministrazione Biden nel 2021. Le ingiunzioni hanno colpito misure su temi come il diritto di cittadinanza, i diritti delle persone transgender e la revoca di fondi federali.

I repubblicani hanno reagito con forza. A fine marzo, Trump ha pubblicato su Truth – il suo social network – un messaggio diretto al presidente della Corte Suprema John Roberts: “Fermate le ingiunzioni nazionali, prima che sia troppo tardi”, tutto in lettere maiuscole. Due settimane più tardi, la Camera ha approvato il disegno di legge No Rogue Rulings Act, che vieterebbe le ingiunzioni a livello nazionale salvo in un caso specifico: quando due Stati di circuiti giudiziari differenti presentano congiuntamente un ricorso, che sarebbe poi esaminato da un collegio di tre giudici. Il testo attende ora l’esame del Senato.

La contestazione di questo strumento non è nuova, né esclusivamente repubblicana. Diverse amministrazioni, di entrambi gli schieramenti, hanno espresso preoccupazione per il potere attribuito a singoli giudici distrettuali di sospendere politiche su scala nazionale. Il CRS ha calcolato che nel corso di tutto il XX secolo furono emesse solo 27 ingiunzioni di questo tipo – nessuna durante il New Deal, nonostante le centinaia di ricorsi contro le misure del presidente Roosevelt. Il numero è salito a 12 sotto George W. Bush (2001-2009), a 19 sotto Barack Obama (2009-2017), a 86 durante il primo mandato di Trump e a 28 sotto Joe Biden.

Questa crescita riflette sia l’ampliamento del potere esecutivo sia l’uso sempre più frequente dei decreti presidenziali, soprattutto da parte di Trump. Tuttavia, la base giuridica delle ingiunzioni nazionali rimane incerta: non sono esplicitamente previste né dalla Costituzione né dalla legge federale. I giudici si basano sul principio del controllo giurisdizionale stabilito dalla Corte Suprema nel 1803 (caso Marbury v. Madison), che assegna al potere giudiziario la facoltà di interpretare la Costituzione e annullare leggi che la violano.

Nel tempo, per evitare disparità di trattamento e in attesa di decisioni definitive, i giudici hanno esteso la portata territoriale delle loro ordinanze. La Corte Suprema non ha mai formalmente vietato questa prassi, anche se diversi giudici hanno espresso riserve. Elena Kagan, giudice progressista ed ex decana di Harvard Law School, si è detta preoccupata nel 2022 per il fenomeno del forum shopping – la tendenza dei ricorrenti a cercare giudici favorevoli alla propria causa. Secondo Kagan, “sotto la presidenza Trump, si ricorreva al distretto nord della California; sotto Biden, si va in Texas”. A suo avviso, “non è concepibile che un solo giudice possa bloccare un’intera politica nazionale”.

Il tema pone un dilemma cruciale per il sistema istituzionale americano: se la Corte Suprema decidesse di limitare le prerogative dei giudici distrettuali, rischierebbe di togliere alla magistratura uno degli strumenti più efficaci per contenere gli abusi dell’esecutivo. Negli ultimi dieci anni, infatti, le ingiunzioni nazionali sono servite a contrastare gli eccessi di tutti i presidenti, non solo di Trump. Ma se lasciato incontrollato, l’uso politico delle ingiunzioni può anche alimentare l’instabilità e delegittimare le istituzioni.

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