Trump riporta negli USA Kilmar Abrego Garcia e lo incrimina per traffico di migranti
Kilmar Abrego Garcia, al centro di uno scontro tra giustizia federale e Casa Bianca, è tornato negli Stati Uniti dove sarà processato. Il governo nega l’errore e rilancia l'accusa di legami con gang.

Un immigrato salvadoregno espulso dagli Stati Uniti “per errore” lo scorso marzo è stato riportato nel Paese nel corso della notte, dove è ora formalmente accusato di traffico di migranti. La vicenda di Kilmar Abrego Garcia, residente nel Maryland e sposato con una cittadina americana, ha suscitato per mesi tensioni tra l’amministrazione Trump e la giustizia federale.
Abrego Garcia era stato espulso il 15 marzo insieme a oltre 250 uomini, accusati di appartenere al Tren de Aragua, una gang venezuelana classificata come “organizzazione terroristica” da Washington. All’arrivo in Salvador, gli espulsi erano stati incarcerati in una prigione di massima sicurezza. Tuttavia, nel caso di Abrego Garcia, la stessa amministrazione Trump aveva ammesso in tribunale un’“errore amministrativo”: un precedente ordine di espulsione contro di lui era stato annullato in via definitiva nel 2019.
Nonostante il riconoscimento dell’irregolarità procedurale, l’esecutivo lo ha in seguito accusato di appartenere al gruppo salvadoregno MS-13, anch’esso classificato come “terrorista” dagli Stati Uniti. A maggio, un grand jury del Tennessee ha formalmente incriminato Abrego Garcia per traffico di migranti a partire dal 2016. È quanto dichiarato dalla ministra della giustizia Pam Bondi, che ha precisato: “Abrego Garcia è atterrato negli Stati Uniti per affrontare la giustizia”.
Bondi ha ringraziato il presidente salvadoregno Nayib Bukele per la collaborazione nel facilitare il rientro del detenuto. “Il nostro governo ha trasmesso un mandato di arresto al Salvador, e loro hanno accettato di rimandarlo nel nostro Paese”, ha spiegato la ministra. In caso di condanna, Abrego Garcia sconterà la pena negli Stati Uniti prima di un eventuale nuovo rimpatrio.
Il rientro dell’uomo segna un’evidente inversione di rotta: solo poche settimane fa, alla Casa Bianca, lo stesso Trump insieme a Bukele aveva dichiarato di non poter intervenire per risolvere il caso. Bukele ha ribadito pubblicamente che la sua posizione non è cambiata, ma ha aggiunto che se Washington richiede la consegna di un presunto membro di una gang per essere giudicato, “non ci opporremo”.
La Casa Bianca continua tuttavia a negare che il ritorno di Abrego Garcia sia legato a un errore, sostenendo che non si tratti di una correzione dell'espulsione. Per l’avvocato dell’imputato, Simon Sandoval-Moshenberg, la vicenda è invece chiara: “Il governo ha fatto sparire Kilmar in una prigione straniera, in violazione di una sentenza. Ora lo riporta non per correggere l’errore, ma per perseguirlo penalmente”. Il legale ha annunciato che Abrego Garcia si difenderà “con vigore” dalle accuse.
Organizzazioni per i diritti degli immigrati vedono nel caso un simbolo di una più ampia preoccupazione. “Questo caso riguarda più di un singolo uomo”, ha dichiarato Ama Frimpong, direttrice legale della CASA, organizzazione per la difesa degli immigrati. “Si tratta di capire se il governo può farci sparire, ridurci al silenzio, aggirare le decisioni giudiziarie e operare attraverso processi segreti per evitare di rendere conto delle proprie azioni”.
Anche la politica ha reagito. Il senatore democratico Chris Van Hollen, che aveva incontrato Abrego Garcia in aprile durante una visita in Salvador, ha criticato duramente l’amministrazione: “Per mesi, l’amministrazione Trump ha calpestato l’autorità della Corte suprema e la nostra Costituzione”. Tuttavia, ha accolto con favore il ritorno dell’uomo, definendolo un passo verso il rispetto delle decisioni giudiziarie e dei diritti alla difesa.
Il presidente Trump ha fatto della lotta all’immigrazione irregolare uno dei pilastri della sua amministrazione, parlando ripetutamente di un’“invasione” da parte di “criminali stranieri”. La comunicazione ufficiale insiste sul numero crescente di espulsioni. Tuttavia, molti di questi provvedimenti sono stati bloccati o rallentati da sentenze della giustizia federale, che hanno ricordato l’obbligo legale di garantire il rispetto dei diritti fondamentali, anche per chi è soggetto a rimpatrio.