Trump rilancia una diplomazia basata sul commercio e decisioni personali

I presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha moltiplicato gli interventi in politica estera, spaziando da accordi commerciali a mediazioni di cessate il fuoco. Al centro, una visione mercantilista che punta sul profitto anziché sull’intervento militare.

Trump rilancia una diplomazia basata sul commercio e decisioni personali
White House

Il presidente Donald Trump ha attraversato una delle settimane più intense del suo mandato per quanto riguarda la politica estera, segnando un'accelerazione significativa nella sua proiezione internazionale. In pochi giorni, la Casa Bianca ha annunciato una serie di iniziative e decisioni che spaziano dal Medio Oriente all'Estremo Oriente, dall'Europa all'Asia meridionale. L’approccio che ne emerge è quello di una diplomazia pragmatica e fortemente personalizzata, incentrata sulla negoziazione commerciale piuttosto che sull'intervento militare, e sulla centralità decisionale del presidente stesso.

Gli sviluppi più rilevanti includono la conclusione di accordi economici con i paesi del Golfo per un valore dichiarato di 600 miliardi di dollari di investimenti negli Stati Uniti, la revoca delle sanzioni alla Siria, la negoziazione per la liberazione di un cittadino americano detenuto da Hamas, la fine dei bombardamenti contro i ribelli Houthi in Yemen, la riduzione dei dazi contro la Cina e l'avvio di colloqui tra Russia e Ucraina in Turchia. A ciò si aggiungono trattative segrete con l'Iran sul nucleare e la rivendicazione, contestata, di un ruolo decisivo nella mediazione del cessate il fuoco tra India e Pakistan.

In questa accelerazione diplomatica si è delineata con maggiore chiarezza quella che potrebbe essere definita una “dottrina Trump”: un rifiuto dell’interventismo occidentale e una preferenza marcata per la negoziazione economica diretta tra stati sovrani. Durante un discorso a Riyadh, Trump ha sintetizzato questa visione con lo slogan “commercio, non caos”, affermando che il Medio Oriente dovrebbe esportare “tecnologia, non terrorismo”. Le sue parole hanno escluso qualsiasi riferimento alla cooperazione multilaterale o ai valori democratici, respingendo esplicitamente la tradizione americana di promuovere i diritti umani o la costruzione di stati.

Il presidente ha colto l’occasione per criticare apertamente i precedenti approcci interventisti, attribuendo ai “cosiddetti costruttori di nazioni e neo-conservatori” la responsabilità di aver “distrutto più nazioni di quante ne abbiano costruite”. Ha concluso che giudicare i governi stranieri non è compito degli Stati Uniti: “Giudicare è compito di Dio. Il mio compito è difendere l’America”.

Questa linea è stata confermata anche dall’atteggiamento prudente inizialmente adottato rispetto agli scontri tra India e Pakistan, definiti dal vicepresidente JD Vance “affari che non ci riguardano”. Solo in un secondo momento, a escalation in corso, sono intervenuti il vicepresidente e il Segretario di Stato Marco Rubio, contattando le due parti. Il cessate il fuoco raggiunto è stato rivendicato da Trump come successo della diplomazia americana, anche se fonti indiane hanno negato ogni mediazione esterna.

Una delle decisioni più discusse della settimana è stata la revoca delle sanzioni alla Siria, a seguito di un incontro diretto tra Trump e il nuovo presidente siriano Ahmed al-Sharaa. La scelta ha suscitato sorpresa sia nella regione che all’interno del governo statunitense, dove il Dipartimento di Stato si era espresso in senso contrario, preferendo mantenere una leva diplomatica sul nuovo governo di Damasco. Secondo alcune fonti, la mossa sarebbe stata favorita dalle pressioni di Turchia e Arabia Saudita e legata ai vantaggi economici ottenuti durante il viaggio di Trump nel Golfo.

Questa modalità decisionale, rapida e spesso improvvisa, con un coinvolgimento minimo delle strutture tradizionali del governo, sembra essere diventata prassi alla Casa Bianca. Ne è un esempio anche la svolta repentina nei rapporti con la Cina. Dopo aver imposto dazi del 145% solo poche settimane fa, Trump ha rapidamente cambiato rotta a fronte delle ritorsioni cinesi e del crollo dei mercati, accettando a Ginevra una riduzione al 30% in cambio di un presunto maggiore accesso al mercato cinese. La sequenza – minaccia, contrattazione, parziale ritiro, proclamazione di vittoria – ha caratterizzato molti dei recenti dossier esteri.

Ma questo approccio si mostra più fragile di fronte a crisi di lunga durata. La guerra in Ucraina ne è l’esempio più emblematico. Sabato scorso, durante una telefonata di gruppo con i leader europei, Trump aveva appoggiato la proposta di un cessate il fuoco immediato, minacciando nuove sanzioni alla Russia. Ma già il giorno dopo, accogliendo la proposta di Vladimir Putin di colloqui diretti in Turchia, il presidente ha cambiato posizione, spingendo l’Ucraina ad accettare l’incontro. Infine, giovedì, ha nuovamente corretto la rotta, sostenendo che l’unica soluzione fosse un suo incontro personale con Putin. La mancanza di coerenza ha alimentato incertezza tra gli alleati.

Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno posto fine ai bombardamenti in Yemen e hanno avviato un quarto ciclo di negoziati con l’Iran sul nucleare, lasciando intendere che un accordo sia a portata di mano, sebbene ridimensionato rispetto alle aspettative. Entrambe le iniziative sono apparse in contrasto con la linea di Israele. Benjamin Netanyahu, pur essendo stato il primo leader a essere ricevuto da Trump dopo il suo insediamento, è stato ignorato durante il recente tour mediorientale del presidente e non informato preventivamente della revoca delle sanzioni alla Siria. Il cessate il fuoco con gli Houthi è arrivato pochi giorni dopo un loro attacco all’aeroporto di Tel Aviv, aumentando i timori di una risposta militare più aggressiva da parte di Israele.

Nonostante il dinamismo mostrato, non si registrano risultati tangibili duraturi. Il conflitto a Gaza prosegue, con una nuova offensiva israeliana che appare probabile. Le relazioni tra Israele e Arabia Saudita, che Trump ambisce a normalizzare, non hanno fatto passi avanti. Le trattative sull’Ucraina non sembrano aver avvicinato la fine delle ostilità, e l’instabilità nei mercati globali persiste nonostante gli accordi commerciali.

Ciò che questa settimana di iperattivismo sembra chiarire è l’approccio di fondo del presidente alla politica estera: un mercantilismo deciso, basato sull’idea che gli scambi economici possano stabilizzare i conflitti. Trump non appare mosso da un desiderio di ritirarsi dal mondo, ma da una volontà di riconfigurare le relazioni internazionali come trattative tra imprenditori, dove il valore primario è l’interesse materiale. Il risultato è una diplomazia fluida, spesso incoerente, fortemente centrata sulla figura presidenziale e sulla sua visione personale delle priorità strategiche degli Stati Uniti.

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