Trump rilancia l’idea di trasferire i palestinesi in massa da Gaza verso altri Paesi arabi vicini

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha riacceso il dibattito sul futuro di Gaza proponendo un trasferimento di massa dei palestinesi verso i Paesi arabi vicini.
Secondo le sue dichiarazioni di ieri ai giornalisti a bordo dell’Air Force One, Giordania, Egitto e altre nazioni dell’area dovrebbero assumersi la responsabilità di accogliere una parte consistente della popolazione della Striscia, ridotta a un “demolition site” dopo 15 mesi di guerra con Israele.
Il presidente non ha esitato a definire Gaza come un luogo da “ripulire” e ricostruire da zero, arrivando a immaginare il trasferimento di un milione e mezzo di persone, “anche a lungo termine”.
Trump afferma che Gaza è “zona magnifica sul mare e dal clima ideale”, che potrebbe essere ricostruita “meglio di Monaco” a patto, però, che la sua popolazione venga spostata.
Trump ha affermato di aver parlato di questa proposta già con il re di Giordania Abdullah II e di volerne discutere anche con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.
La contrarietà del mondo arabo
Le parole del presidente americano incontreranno, quasi certamente, la dura opposizione proprio di Amman e del Cairo, che da subito si sono rifiutati di aprire le proprie frontiere a nuovi flussi di profughi palestinesi.
Nonostante lo scorso anno anche la precedente Amministrazione Biden avesse vagliato l’opzione di far evacuare alcune aree di Gaza durante i bombardamenti, la netta contrarietà manifestata dagli Stati vicini ha fatto cadere ogni prospettiva concreta.
La prospettiva di un arrivo massiccio di cittadini di Gaza, infatti, è considerata dai Paesi arabi come una potenziale “minaccia esistenziale”, anche alla luce del fatto che Israele non si è mai impegnata a permettere il ritorno dei palestinesi una volta usciti dal territorio.
Già all'inizio della guerra, quando il Primo Ministro israeliano Netanyahu aveva per primo sollevato questa idea, il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi ha definito questa ipotesi come una “seria minaccia alla sicurezza nazionale egiziana” e gli aveva persino chiarito che una simile mossa avrebbe messo a rischio lo stesso accordo di pace tra Israele ed Egitto.
Tali timori sono condivisi dalla popolazione di Gaza stessa: chi ha tentato di oltrepassare il confine verso l’Egitto, ha dovuto pagare costi molto elevati senza poi ottenere alcun riconoscimento come rifugiato.
Il timore di moltissimi palestinesi è che uscendo dalla Striscia non si possa più tornare, una prospettiva che ricorda fin troppo da vicino ai palestinesi la “Nakba” — la catastrofe del 1948 — e ne rafforza la resistenza all’idea di un trasferimento forzato.
La proposta di trasferire parte della popolazione di Gaza in Indonesia era già emersa prima dell’insediamento di Trump, quando fonti dell’allora team di transizione lasciarono trapelare l’intenzione di discutere con Giacarta l’ipotesi di un ricollocamento temporaneo.
Lo stesso Ministro degli Esteri indonesiano Sugiono ha in seguito ricevuto una telefonata dal Segretario di Stato Marco Rubio, in cui Washington salutava con favore la disponibilità di Giacarta a farsi coinvolgere nei progetti di ricostruzione in Medio Oriente.
L’Indonesia, peraltro, si era già offerta di inviare forze di pace per far rispettare un eventuale cessate il fuoco nella Striscia. Ma dell’ipotesi della ricollocazione dei palestinesi di Gaza in Indonesia non se è più parlato in seguito.
La rinnovata idea di un trasferimento in massa dei palestinesi dalla Striscia ha intanto già scatenato reazioni molto forti da Hamas.
Bassem Naim, alto funzionario del movimento, ha bollato il piano americano come un ennesimo tentativo di “spostamento forzato” e ha garantito che i palestinesi “faranno fallire l’idea di Trump così come hanno sconfitto ogni altra iniziativa volta alla loro espulsione”.
Dure critiche a Washington sono arrivate anche da molti altri osservatori arabi, che interpretano la mossa come una forma di “pulizia etnica”, in cui l’evacuazione di Gaza costituirebbe un altro pericoloso precedente nella questione israelo-palestinese.
La destra israeliana gioisce
All’interno di Israele, invece, i partiti dell’ala più radicale del governo hanno invece espresso viva approvazione.
Il Ministro ultranazionalista delle Finanze Bezalel Smotrich ha definito la proposta “un’ottima idea”, mentre Itamar Ben Gvir, ex Ministro estremista della Sicurezza Nazionale e leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, ha rilanciato la richiesta al premier Benjamin Netanyahu di sfruttare l’assist di Trump per promuovere la “emigrazione volontaria” degli abitanti di Gaza, suo cavallo di battaglia da tempo.
In un contesto così polarizzato, la fragile tregua in atto — che ha portato allo scambio di alcuni ostaggi israeliani con detenuti palestinesi — rischia però di diventare ancor più precaria.
Mentre si attendono i negoziati per quella che dovrebbe essere la seconda fase dell’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas, la prospettiva di un ricollocamento dei palestinesi resta dunque una spada di Damocle sul futuro della Striscia.
La sensazione generale è che, se davvero si tentasse di mettere in pratica un simile piano, le tensioni nella regione rischierebbero di esplodere di nuovo, vanificando ogni sforzo di tregua e di ricostruzione raggiunto faticosamente negli ultimi mesi.