Trump propone incentivi alla natalità, ma i risultati restano incerti

Il presidente rilancia un pacchetto di politiche pro-nataliste con bonus per le famiglie, seguendo una linea già tentata altrove con costi elevati e impatti limitati. Secondo l'Economist, l’efficacia resta dubbia.

Trump propone incentivi alla natalità, ma i risultati restano incerti
Photo by Tuva Mathilde Løland / Unsplash

Il presidente Donald Trump ha chiesto all’inizio dell’anno di rendere più accessibili i trattamenti di fecondazione assistita e ha rilanciato un pacchetto di misure pro-nataliste con l’obiettivo di avere un aumento delle nascite negli Stati Uniti. Tra le proposte c'è anche un assegno una tantum da 5.000 dollari per ogni nuovo nato. L’iniziativa gode del sostegno del vicepresidente J.D. Vance ed è parte di una più ampia strategia, ispirata anche dalle convinzioni personali di Elon Musk, che aveva fatto della crescita demografica una priorità politica.

Misure simili stanno emergendo anche nel Regno Unito, dove Nigel Farage – leader di Reform UK, partito di opposizione vicino alla destra americana – ha proposto sgravi fiscali e benefici per incoraggiare la natalità. Queste politiche rispondono alla crescente preoccupazione per le conseguenze economiche e sociali dell’invecchiamento della popolazione, in particolare per la sostenibilità dei sistemi pensionistici.

Come spiega l'Economist, le politiche pro-nataliste non sono una novità. Paesi con bassi tassi di natalità, come Giappone e Corea del Sud, hanno già speso miliardi per invertire la tendenza, con risultati deludenti. La novità delle iniziative promosse da esponenti della destra transatlantica risiede nel loro orientamento: mirano in particolare alle donne della classe lavoratrice, il cui tasso di fertilità è crollato più rapidamente rispetto ad altri gruppi sociali. Secondo i sostenitori, questo approccio più mirato potrebbe generare qualche risultato in più. Tuttavia, difficilmente potrebbe farlo a costi sostenibili o senza creare distorsioni.

Un esempio emblematico è quello dell’Ungheria. Il primo ministro Viktor Orban ha avviato un vasto programma pro-natalista nel 2011, introducendo agevolazioni fiscali, bonus in denaro e servizi gratuiti per l’infanzia. Queste misure pesano sul bilancio pubblico per il 5,5% del PIL ogni anno, una cifra superiore a quanto molti governi spenderanno per la popolazione anziana da qui al 2050. Nel febbraio 2025, il governo ha promesso l’esenzione permanente dall’imposta sul reddito alle madri con due figli.

Inizialmente il tasso di fertilità in Ungheria è aumentato, passando da 1,2 figli per donna nel 2011 a 1,6 nel 2018. Tuttavia, da allora è tornato a scendere. Secondo l'Economist, questo indica che molte donne non hanno avuto più figli, ma li hanno semplicemente avuti prima. Esperienze simili si sono verificate in altri paesi, tra cui Giappone, Norvegia e Polonia, dove incentivi economici, congedi parentali e perfino incontri organizzati dallo Stato non hanno prodotto un aumento duraturo della natalità. Le politiche adottate finora sembrano aver solo attenuato gli svantaggi economici per le donne che decidono di avere figli, senza convincerle ad averne di più.

Tanto Farage quanto Vance condividono con Orban l’obiettivo di aumentare la popolazione nativa rispetto a quella immigrata, ma con un impegno economico più contenuto e una concentrazione degli aiuti sulle famiglie a basso reddito. Farage propone di eliminare il tetto massimo ai benefici per figli e di innalzare la soglia di esenzione fiscale per uno dei coniugi. I bonus proposti da Trump sarebbero più significativi per le famiglie povere rispetto a quelle benestanti.

Alla base di queste proposte vi è l’idea che le donne con minori risorse rispondano in modo più sensibile agli incentivi. In effetti, la loro fertilità appare più "elastica" rispetto a quella delle donne con titoli universitari, il cui comportamento riproduttivo è rimasto sostanzialmente stabile negli ultimi sessant’anni. La riduzione della natalità negli Stati Uniti e nel Regno Unito dal 1980 è attribuibile in gran parte alla diminuzione delle gravidanze non pianificate tra le giovani donne prive di un titolo accademico. Nel 1994, l’età media della prima maternità per queste donne era di 20 anni; oggi, due terzi delle ventenni senza laurea non hanno ancora avuto figli.

È quindi possibile che le misure di Trump e Farage producano un aumento delle nascite più rilevante rispetto a politiche come quelle norvegesi, incentrate su servizi per l’infanzia apprezzati soprattutto dalle donne con carriere professionali. Tuttavia, l'Economist sottolinea come nessuna politica finora applicata sia stata in grado di modificare significativamente le tendenze demografiche senza un costo eccessivo. Inoltre, il giornale britannico mette in dubbio la legittimità stessa di un obiettivo di questo tipo: lo Stato dovrebbe aiutare le famiglie povere perché ne hanno bisogno, non per spingerle ad avere più figli.

Non ci sono prove che le donne della classe lavoratrice americana desiderino più figli di quanti già ne abbiano. E non è affatto scontato che promuovere la natalità in questo segmento sociale produca una società migliore. Il calo della natalità e delle gravidanze adolescenziali è avvenuto in concomitanza con un aumento dell’istruzione femminile e dell’accesso all’università, che ha migliorato le prospettive delle donne sotto molti punti di vista. Politiche pro-nataliste troppo generose potrebbero indurre alcune di loro ad abbandonare prima gli studi, vanificando questi progressi.

In conclusione, è meglio lasciare le decisioni in materia di figli alle famiglie. Le ambizioni dei governi di pianificare le nascite, anche con buone intenzioni, tendono a fallire o a produrre effetti collaterali.

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