Trump ed i limiti della strategia dei dazi

Il presidente americano usa la minaccia dei dazi come leva diplomatica e per aumentare le proprie entrate fiscali, ma creando al contempo incertezza sui mercati globali senza una exit strategy ben chiara.

Trump ed i limiti della strategia dei dazi
Foto di Ian Taylor / Unsplash

Il presidente Donald Trump, che in passato si è auto definito Tariff Man e che ha definito la parola “dazi” come una delle più belle del vocabolario, ha da tempo fatto della minaccia tariffaria uno strumento di pressione internazionale. 

L’annuncio dell’imposizione di nuovi dazi – come in questi giorni del 25% sui beni prodotti in Canada e Messico – non necessita neppure della loro applicazione effettiva. 

Bastano infatti già le minacce, come visto nel caso della Colombia, per incutere timore e spingere i Paesi coinvolti ad annunciare contromisure preventive, contribuendo così a mantenere i mercati in uno stato di costante incertezza.

Una doppia finalità: pressione e entrate fiscali

Dietro questa facciata d’imprevedibilità si cela in realtà una duplice strategia. Oltre a fungere da leva negoziale, i dazi rappresentano, per Trump, una fonte concreta di entrate per il Tesoro statunitense. 

L’Amministrazione Trump intende, infatti, sfruttare i dazi non solo come strumento di pressione, ma anche per finanziare il rinnovo dei tagli fiscali promossi dai repubblicani.

Ma per arrivare a questo scopo, occorre trasformare misure imposte in via minacciosa per ottenere un risultato specifico in uno strumento stabile e permanente.

Fin dal suo insediamento, il presidente ha sottolineato la necessità di una revisione complessiva delle politiche tariffarie. 

Un ordine esecutivo ha infatti fissato una serie di revisioni e proposte da attuare entro il 1° aprile, con l’obiettivo di definire una struttura tariffaria più formale e articolata. 

Se da un lato questo calendario apre la possibilità a interventi tempestivi, dall’altro la portata effettiva dei dazi rimane incerta. 

Per evitare ripercussioni troppo drammatiche sul commercio internazionale, infatti, alcuni dei principali consiglieri economici del presidente hanno proposto un approccio a step graduali.

Equilibrio tra maggiori entrate e commercio internazionale

Dal punto di vista economico, la logica è chiara: i dazi devono essere sufficientemente elevati da generare risorse rilevanti per il bilancio federali, ma al contempo contenuti per non bloccare completamente le importazioni. 

Un’analisi ipotetica suggerisce che un dazio del 10% applicato su tutte le importazioni per un controvalore di circa 3 mila miliardi di dollari potrebbe produrre entrate dell’ordine di 300 miliardi di dollari. 

Naturalmente, questo calcolo iper semplificato non tiene conto delle specificità di alcuni prodotti, per i quali dazi troppo elevati risulterebbero proibitivi, né del fatto che non tutte le importazioni saranno soggette a dazi.

Una complicazione ulteriore deriva dal fatto che, durante il recente meeting annuale a Davos, il presidente Trump ha dichiarato che, per incentivare gli investimenti interni, i Paesi le cui aziende svolgono attività di produzione negli Stati Uniti beneficeranno di condizioni tariffarie più vantaggiose.

Se da un lato questa misura potrebbe favorire l’afflusso di investimenti stranieri sul suolo statunitense, dall’altro, però, rischia di cozzare con la volontà del presidente di impiegare i dazi per compensare il calo delle entrate derivante dai tagli fiscali che intende far approvare dalla maggioranza repubblicana al Congresso.

Reazioni internazionali e prospettive di instabilità

Sul fronte internazionale, l’imprevedibilità della strategia di Trump solleva ulteriori interrogativi. 

La capacità di imporre la propria volontà tramite minacce tariffarie, come evidenziato nella recente disputa con la Colombia – dove il presidente ha ottenuto una sostanziale resa dopo aver minacciato l’applicazione di dazi in risposta al rifiuto di Bogotà di accettare i voli militari di rimpatrio dei migranti – alimenta timori tra i partner commerciali detli Stati Uniti.

Sebbene la prospettiva di un quadro tariffario strutturato possa sembrare un segnale di maggiore prevedibilità, la sua attuazione è vincolata a una scadenza incerta, rischiando di compromettere la fiducia degli investitori e la stabilità degli accordi commerciali, incluso il rinnovato USMCA, attualmente considerato il fiore all’occhiello della politica commerciale americana.

A tal proposito la scorsa settimana, all’annuncio dei nuovi dazi, il premier dell'Ontario Doug Ford ha fatto notare che Trump una volta aveva definito l'USMCA "il più grande accordo che si potesse mai raggiungere".

"Cosa c'è di sbagliato nell'accordo ora?"

La Casa Bianca in risposta ha affermato che i dazi del 25% non sono correlati all'USMCA quanto a questioni come l'immigrazione ed il flusso di fentanyl attraverso il confine con il Canada. 

Un funzionario della Casa Bianca ha anzi fatto sapere che il Presidente sta cercando di rendere l'USMCA "un accordo ancora migliore" in vista del rinnovo dell'accordo commerciale previsto per il 2026.

È sempre più evidente, quindi, che la vera sfida per gli Stati Uniti di Donald Trump consisterà nel cercare di trasformare una politica tariffaria attualmente percepita come imprevedibile in un meccanismo regolato e trasparente, capace di garantire stabilità e fiducia sia a livello interno che internazionale.

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