Trump è pronto alla guerra contro l'Iran?
Il presidente americano oscilla tra diplomazia e minaccia militare. Dopo l'attacco israeliano alle strutture nucleari iraniane, Trump valuta opzioni di supporto diretto, tra pressioni interne e calcoli strategici.

Nel quinto giorno di combattimenti tra Israele e Iran, il presidente Donald Trump ha lasciato anticipatamente il vertice del G7 in Canada per fare ritorno a Washington, alimentando le speculazioni su un possibile intervento diretto degli Stati Uniti nel conflitto. Se da un lato il presidente continua a dichiararsi contrario a nuovi coinvolgimenti militari in Medio Oriente, dall’altro le sue dichiarazioni pubbliche e i movimenti del suo governo mostrano un atteggiamento sempre più vicino alla linea dura di Israele.
Il 17 giugno, Israele ha annunciato l’uccisione di un altro generale iraniano, Ali Shadmani, definito il più alto ufficiale militare iraniano in carica. Era stato nominato solo quattro giorni prima, in sostituzione di un altro generale ucciso da un raid israeliano all’inizio delle ostilità. Secondo l’esercito israeliano, sono almeno undici i comandanti militari di alto livello eliminati da quando sono iniziate le operazioni. I raid hanno colpito anche il sito nucleare sotterraneo di Natanz, provocando danni più gravi del previsto. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha confermato “impatti diretti” nelle aree di arricchimento dell’uranio.

Mentre Israele prosegue gli attacchi con l’obiettivo di colpire le infrastrutture nucleari iraniane, l’Iran ha lanciato una nuova ondata di missili, colpendo zone vicine a centri militari israeliani, tra cui un’accademia di addestramento e aree nei pressi della sede del Mossad. Secondo il presidente Trump, "abbiamo il totale controllo dei cieli sopra l’Iran”, attribuendo questo dominio alla superiorità tecnologica americana.
In questo contesto, Trump ha dichiarato di volere qualcosa di “meglio di un cessate il fuoco”, auspicando una “vera fine” del conflitto e un “abbandono totale” da parte dell’Iran dei suoi sforzi per ottenere l’arma nucleare. Pur ribadendo che l’America non intende essere trascinata in guerre straniere, ha anche affermato che l’Iran “non può avere un’arma nucleare” e ha invitato i civili a evacuare Teheran, preannunciando possibili attacchi ancora più gravi.
Dietro le quinte, la situazione appare ancora più complessa. Secondo fonti dell’intelligence americana, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe deciso di procedere con un attacco esteso al programma nucleare iraniano anche senza il supporto degli Stati Uniti. Questo ha costretto l’amministrazione Trump a prendere posizione. A inizio giugno, durante un incontro a Camp David, il direttore della Central Intelligence Agency John Ratcliffe ha avvertito il presidente che l’attacco israeliano era imminente. Il presidente ha quindi autorizzato un sostegno finora non reso pubblico da parte dell’intelligence americana.

Trump si è trovato così a dover scegliere tra restare ai margini del conflitto o sostenere esplicitamente Israele. Ha optato per una via intermedia: fornire supporto informativo e di sorveglianza, ma senza impegno militare diretto. Tuttavia, il Pentagono ha già predisposto diversi piani operativi congiunti con Israele. Uno di questi prevede il rifornimento in volo degli aerei israeliani da parte di velivoli americani. Un altro contempla l’uso di bombe americane da 30.000 libbre per colpire Fordo, il sito nucleare iraniano più protetto, situato in profondità nella montagna.
Nel frattempo, fonti vicine al presidente riferiscono che Trump sarebbe sempre più propenso a fornire le armi richieste da Netanyahu, compreso il famigerato bunker-buster. Se in aprile Trump aveva respinto questa richiesta per non compromettere i negoziati in corso, oggi la sua posizione sembra essersi modificata. Il suo inviato speciale per il Medio Oriente, Steve Witkoff, aveva portato avanti trattative segrete in Oman e perfino inviato una lettera all’ayatollah Khamenei, con un messaggio chiaro: “Non voglio guerra, voglio un accordo”. Ma la risposta iraniana, giunta il 4 giugno, è stata un rifiuto dell’ultima proposta americana.
La frustrazione di Trump è cresciuta. Dopo un incontro con il conduttore radiofonico Mark Levin, noto per le sue posizioni anti-iraniane, il presidente ha espresso dubbi sull’utilità di ulteriori sforzi diplomatici. Allo stesso tempo, ha indicato che potrebbe inviare Witkoff o il vicepresidente JD Vance per un ultimo tentativo di colloqui. Tuttavia, ha subito precisato: “Non sono molto dell’umore per negoziare”.
Le dichiarazioni del presidente americano hanno suscitato reazioni contrastanti. Il primo ministro britannico Keir Starmer ha affermato che “non c’è nulla che indichi un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti”, mentre la leadership israeliana continua a sollecitare Washington a unirsi alla campagna militare. L’idea che solo l’aviazione americana abbia le capacità necessarie per colpire efficacemente Fordo è diventata un argomento centrale nella pressione diplomatica israeliana.
Nel frattempo, il Congresso americano si sta muovendo per limitare l’autorità del presidente. I deputati Ro Khanna (Democratico) e Thomas Massie (Repubblicano) stanno per presentare una risoluzione che richiederebbe l’approvazione parlamentare prima di qualsiasi intervento militare diretto contro l’Iran. Al Senato, il democratico Tim Kaine ha già avviato un’iniziativa simile.
All’interno della stessa amministrazione Trump permangono differenze di vedute. Il vicepresidente Vance ha espresso timori per una guerra di cambio di regime, ritenendola una deriva pericolosa. Tuttavia, altri membri del gabinetto, come il segretario alla Difesa Pete Hegseth e il segretario di Stato Marco Rubio, sono rimasti allineati con la volontà presidenziale, anche nei momenti di svolta.
Con la retorica che si fa più dura e i preparativi militari già in atto, resta incerto se Trump opterà per un coinvolgimento diretto. Ma gli eventi delle ultime ore mostrano un cambio di postura evidente. Da una diplomazia fatta di lettere e trattative segrete, l’amministrazione è passata a fornire supporto militare e a considerare opzioni di attacco.
Come ha detto il presidente americano, “America First significa molte cose, incluso che l’Iran non può avere un’arma nucleare”. La linea rossa, dunque, sembra tracciata. Resta da vedere se sarà attraversata.