Trump e i dazi: l’arbitrarietà del potere mette alla prova le istituzioni americane

In un articolo pubblicato su The Atlantic, la giornalista Anne Applebaum analizza la decisione di Trump di sospendere i dazi e ne fa un esempio dei rischi che corre una democrazia quando le sue istituzioni rinunciano a esercitare i propri poteri di controllo.

Trump e i dazi: l’arbitrarietà del potere mette alla prova le istituzioni americane

In un articolo pubblicato su The Atlantic, la giornalista e storica Anne Applebaum analizza le conseguenze della decisione del presidente Donald Trump di sospendere, in modo improvviso e unilaterale, la maggior parte dei dazi che lui stesso aveva imposto. Una scelta attribuita da Trump al proprio “istinto”, ma che potrebbe essere stata influenzata da una serie di fattori esterni: il crollo dei mercati finanziari, la fuga degli investitori dai titoli del Tesoro, la pressione dei donatori repubblicani o, forse, l’interesse personale per il proprio portafoglio.

Indipendentemente dalle motivazioni, scrive Applebaum, questo episodio rivela la pericolosità di un potere esercitato in modo arbitrario, senza alcun freno istituzionale. Il gesto di Trump dimostra come una sola persona possa condizionare l’intera economia globale, forzare una recessione e destabilizzare il sistema finanziario internazionale, senza consultare il Congresso né ascoltare le voci critiche all’interno del proprio partito o del governo.

Applebaum osserva che i repubblicani che guidano il Congresso hanno scelto di non esercitare il proprio ruolo costituzionale di contrappeso al potere esecutivo. Anche il gabinetto presidenziale, composto per lo più da fedelissimi, non ha sollevato obiezioni, difendendo politiche contraddittorie anche a costo di apparire poco credibili. Né i tribunali sono intervenuti finora in maniera efficace per porre dei limiti alle azioni del presidente.

Secondo la giornalista, questa situazione rappresenta un fallimento sistemico: “Le persone e le istituzioni che dovrebbero contenere il potere esecutivo rifiutano di farlo”, scrive Applebaum. Il risultato è che oggi gli Stati Uniti si trovano, di fatto, governati da un presidente che agisce come un sovrano assoluto, convinto di poter piegare la realtà al proprio volere, senza alcun rispetto per i fatti, le prove o le opinioni divergenti.

Applebaum collega questa deriva all’idea, profondamente radicata nei fondamenti del sistema americano, secondo cui nessuno dovrebbe concentrare in sé tutti i poteri dello Stato. Ricorda che, durante la Convenzione costituzionale del 1787 a Filadelfia, i Padri fondatori discussero a lungo su come impedire la formazione di un potere assoluto. Citando James Madison nel Federalist No. 47, scrive che “l'accumulazione di tutti i poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario nelle stesse mani [...] può essere giustamente definita la vera essenza della tirannide”.

I cittadini si sentono spesso frustrati dalla lentezza dei processi decisionali, dalle mediazioni continue, dalle difficoltà nel raggiungere compromessi. Questo sentimento ha aperto la strada a nuove forme di autoritarismo, come già accaduto nel XX secolo. Mussolini dichiarava che “gli uomini sono stanchi della libertà”, mentre Lenin derideva le democrazie borghesi. Oggi, in modo meno esplicito ma non meno pericoloso, alcuni intellettuali statunitensi propongono di sostituire il sistema democratico con un “CEO nazionale”, un’autorità centralizzata che agisca come un manager di Stato, in grado di decidere rapidamente, senza ostacoli.

La vicenda dei dazi, secondo Applebaum, dimostra quanto queste teorie siano illusorie. I sistemi dominati da un solo uomo diventano presto inefficienti, corrotti e imprevedibili. Se il Congresso non riprenderà il ruolo che la Costituzione gli assegna, e se la magistratura non interverrà con decisione, il ciclo distruttivo potrà proseguire, con conseguenze che andranno ben oltre i confini degli Stati Uniti.

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