Stephen Miller, l’uomo forte dietro le politiche di Trump
Un’inchiesta di Rolling Stone descrive come il consigliere abbia assunto un ruolo centrale nella seconda amministrazione Trump, modellando le politiche su immigrazione, ordine pubblico e diritti civili

Nella seconda amministrazione Trump, Stephen Miller è diventato il più potente funzionario non eletto degli Stati Uniti. È quanto emerge da una lunga inchiesta pubblicata da Rolling Stone, che ricostruisce l’ascesa del consigliere politico e la sua influenza senza precedenti sulle decisioni della Casa Bianca. Miller, oggi vice capo di gabinetto per la politica e consigliere per la sicurezza interna, è descritto come il vero architetto delle principali iniziative dell’amministrazione, dal controllo dell’immigrazione al dispiegamento dei militari nelle città americane.
Il ritratto tracciato dalla rivista inizia la notte delle elezioni del novembre 2024, quando Trump proclamò la vittoria in Florida. Miller, allora 39enne, era tra i più esultanti all’hotel Hilton di West Palm Beach, accolto da donatori e dirigenti repubblicani che lo ringraziavano come se il successo fosse anche suo. Quel momento segnò l’inizio di un potere personale che si sarebbe consolidato nei mesi successivi.
Secondo l’inchiesta, molte delle decisioni più controverse dell’attuale amministrazione portano la firma di Miller. Pur avendo sempre la convalida del presidente, sarebbe lui a redigere ordini esecutivi, elaborare teorie legali discutibili e spingere gli apparati federali a eseguire politiche drastiche. Funzionari e osservatori lo descrivono come il “vero procuratore generale”, il “premier” o addirittura il “presidente Miller”.
Le misure adottate sotto la sua guida riguardano soprattutto l’immigrazione. Miller avrebbe imposto quote di arresti agli agenti federali, promuovendo un sistema che non punta solo a espulsioni di massa, ma anche a “sparizioni” e detenzioni prolungate in centri appositi. Il governo, racconta Rolling Stone, può arrestare persone senza precedenti penali nei luoghi più comuni della vita quotidiana: scuole, chiese, uffici giudiziari.
Il magazine ricorda inoltre che Miller ha sostenuto pubblicamente l’uso dell’Alien Enemies Act per effettuare rimpatri senza processo e ha ipotizzato la sospensione dell’habeas corpus, uno dei diritti costituzionali fondamentali. Parallelamente, ha promosso la normalizzazione del dispiegamento di truppe sul territorio americano non per emergenze, ma con finalità politiche interne.
L’articolo documenta anche episodi concreti. Un avvocato dell’Ohio ha raccontato a Rolling Stone la vicenda di una famiglia latinoamericana divisa da un arresto improvviso durante un check-in con l’agenzia federale. Il padre fu ammanettato davanti alla moglie e alla figlia di tre anni, senza precedenti penali e nonostante un errore burocratico che aveva segnato il loro caso. La bambina, ricorda l’avvocato, gridava disperata “Voglio il mio papà!”, mentre gli agenti giustificavano l’operazione dicendo di “dover solo eseguire ordini”.
Accanto a questi episodi, Rolling Stone ricostruisce la biografia politica di Miller. Cresciuto a Santa Monica, in California, fin da adolescente avrebbe mostrato atteggiamenti provocatori e posizioni radicali. Negli anni a Washington, come collaboratore del senatore Jeff Sessions, era noto per il carattere difficile e per l’adesione a posizioni estremiste in materia di immigrazione. La sua ammirazione per l’Immigration Act del 1924 — una legge che ostacolò l’ingresso di rifugiati ebrei in fuga dal nazismo — è citata come indice della sua visione restrittiva.
All’interno della Casa Bianca, Miller viene descritto come un dirigente instancabile e aggressivo. Lavora a lungo, interviene su ogni documento e ordina ai funzionari di “portare a termine” le direttive presidenziali. Le sue riunioni sarebbero segnate da urla, minacce di licenziamento e umiliazioni pubbliche, al punto da spingere alcuni dipendenti a piangere sul lavoro.
Il rapporto personale con Trump è complesso. Secondo alcuni testimoni, il presidente non avrebbe risparmiato battute sprezzanti sul carattere e il comportamento del consigliere. Ma al tempo stesso lo considera indispensabile, definendolo la risposta alla sua storica domanda: “Dov’è il mio Roy Cohn?”. Per la portavoce Karoline Leavitt, Miller è uno dei collaboratori più fidati e rispettati del presidente, lodato anche da vari esponenti repubblicani come Josh Hawley, Steve Scalise, Tom Cotton, Mike Lee e Jim Jordan.
L’inchiesta conclude che Miller non solo influenza ogni settore della politica interna, ma rappresenta anche l’anima ideologica dell’amministrazione. La sua ossessione per quello che definisce “odio contro i bianchi” e la sua visione di un’America fortemente militarizzata hanno impresso una direzione precisa alla Casa Bianca. Molti nel partito repubblicano oscillano tra ammirazione e timore, riconoscendo in lui un consigliere tanto potente quanto implacabile.