Licenziati oltre 1.300 funzionari al Dipartimento di Stato

Il provvedimento si inserisce nel piano di riduzione degli organici promosso dalla Casa Bianca. I dipendenti interessati saranno sospesi prima del licenziamento effettivo. Critiche da parte del mondo diplomatico.

Licenziati oltre 1.300 funzionari al Dipartimento di Stato
State Department

Il Dipartimento di Stato statunitense ha avviato venerdì 11 luglio il licenziamento di oltre 1.300 dipendenti, in applicazione della riforma voluta dal presidente Donald Trump per ridurre l’organico federale e ristrutturare profondamente l’amministrazione. La misura, resa possibile dalla recente decisione della Corte suprema, si inserisce in una più ampia strategia di tagli che ha già colpito decine di migliaia di funzionari in altre agenzie governative.

Secondo quanto riferito da un alto dirigente del Dipartimento all’Associated Press, gli avvisi di licenziamento sono stati inviati a 1.107 funzionari federali e a 246 diplomatici del servizio estero. I primi verranno posti in congedo amministrativo per sessanta giorni, i secondi per centoventi, al termine dei quali perderanno ufficialmente il loro impiego. Una nota interna del Dipartimento, consultata dalla stessa agenzia di stampa, precisa che il provvedimento si concentra sulle “funzioni non essenziali” e sui “dipartimenti ridondanti” o da cui possono derivare “considerevoli guadagni di efficienza”.

Il documento afferma inoltre che “il Dipartimento sta ottimizzando le operazioni interne per concentrarsi sulle priorità diplomatiche”, in linea con la visione dell’amministrazione Trump, che intende riorientare l’azione pubblica verso obiettivi ritenuti più strategici per la sicurezza e gli interessi degli Stati Uniti.

La decisione è stata resa possibile dopo che, l’8 luglio, la Corte suprema ha rimosso un blocco giudiziario imposto due mesi prima da un tribunale californiano, aprendo la strada all’attuazione dei licenziamenti massicci. Pur non entrando nel merito della legittimità del piano di riduzione, la Corte ha stabilito che il presidente ha il diritto, in linea di principio, di licenziare funzionari federali.

L’iniziativa rappresenta una nuova tappa del programma di ristrutturazione amministrativa lanciato da Trump sin dal suo ritorno alla Casa Bianca, nel gennaio 2025. Tra le misure più emblematiche figura la creazione del Department of Government Efficiency (DOGE), un’unità speciale incaricata di valutare l’efficienza delle agenzie federali. A capo di questa struttura era stato inizialmente posto Elon Musk, poi allontanatosi dal presidente in seguito a divergenze politiche. Il DOGE ha guidato, tra le altre cose, la riduzione di almeno 130.000 posizioni federali nei primi mesi del nuovo mandato presidenziale.

Il Dipartimento di Stato, che impiega più di 18.700 persone sul territorio nazionale, aveva annunciato in una lettera al Congresso l’obiettivo di ridurre il personale del 18%, attraverso licenziamenti e uscite volontarie. A oggi, la misura ufficializzata l’11 luglio appare come il primo passo concreto verso questo obiettivo, seppure in una scala leggermente inferiore alle previsioni più allarmistiche.

Il segretario di Stato Marco Rubio ha difeso la riforma definendola “una misura molto ponderata per riorganizzare il Dipartimento in modo da renderlo più efficace e mirato”. In un intervento da Kuala Lumpur, dove partecipava a un forum internazionale, Rubio ha precisato: “Non si tratta di persone, ma di posizioni che vengono eliminate”.

Le reazioni critiche non si sono fatte attendere. L’American Academy of Diplomacy, associazione che riunisce ex diplomatici di alto livello, ha espresso forte preoccupazione per l’impatto della misura, affermando che essa “comprometterà seriamente la capacità del governo di comprendere, spiegare e rispondere a un mondo complesso e sempre più conteso”.

L’apparato diplomatico statunitense è da tempo nel mirino dell’amministrazione e dei settori conservatori del Partito repubblicano, che lo accusano di essere troppo impegnato nella promozione globale di valori ritenuti progressisti e troppo poco focalizzato sulla difesa degli interessi nazionali. La ristrutturazione in corso mira, secondo questa visione, a riportare la politica estera statunitense su binari considerati più pragmatici e meno ideologici.

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