La politica di Trump in Asia sud-orientale favorisce la Cina

Il ritiro degli Stati Uniti dalle alleanze strategiche nella regione offre a Pechino l’occasione di rafforzare la propria influenza economica, diplomatica e ideologica

La politica di Trump in Asia sud-orientale favorisce la Cina
Photo by / Ricardo / Unsplash

La politica estera dell’amministrazione Trump sta creando un vuoto strategico in Asia sud-orientale che la Cina appare pronta a colmare. A trarne beneficio sono le ambizioni di Pechino di costruire un ordine regionale incentrato su sé stessa, senza la presenza statunitense. La svolta è significativa: gli Stati Uniti, che sotto la presidenza di Joe Biden avevano consolidato relazioni chiave con i paesi membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN), stanno ora smantellando molte delle leve con cui Washington esercitava la propria influenza nella regione.

L’analisi pubblicata da Le Monde a firma del corrispondente da Bangkok Brice Pedroletti evidenzia come il disimpegno americano sia visibile su più fronti: indebolimento delle alleanze militari, riduzione dell’aiuto allo sviluppo, ritirata degli investimenti delle grandi multinazionali statunitensi e minore enfasi nella promozione dei valori democratici. La Cina, che fino a poco tempo fa affrontava un isolamento diplomatico aggravato dalla pandemia, coglie questa occasione per riposizionarsi come potenza guida del continente asiatico.

Durante il mandato Biden, molti paesi dell’ASEAN avevano aderito a una nuova fase di friend-shoring, ossia la delocalizzazione industriale dalla Cina verso paesi considerati alleati degli Stati Uniti. Questa strategia sembrava promettere una nuova era di crescita, alimentata da investimenti americani e asiatici (giapponesi, sudcoreani e taiwanesi). Il caso più emblematico fu quello del Vietnam, che nel settembre 2023 elevò le proprie relazioni con gli Stati Uniti al massimo livello strategico, ponendole alla pari di quelle con Cina e Russia.

La nuova amministrazione Trump, pur mantenendo un atteggiamento di forte rivalità verso la Cina, sta però minando i presupposti su cui si fondava questa dinamica. Secondo Le Monde, questa linea si traduce in un indebolimento delle presenze americane nei nodi strategici della regione, una scelta che offre a Pechino l’opportunità di consolidare la propria sfera d’influenza.

Pechino non sottovaluta il contesto. Lo testimoniano una serie di gesti altamente simbolici: la visita del presidente Xi Jinping in Cambogia il 17 aprile, anniversario della presa di Phnom Penh da parte dei Khmer rossi, e la partecipazione di soldati cinesi alla parata del 30 aprile a Ho Chi Minh-Ville, in occasione dei cinquant’anni dalla caduta di Saigon. Due eventi che celebrano, secondo la narrazione cinese, vittorie storiche contro l’imperialismo americano.

Il messaggio veicolato è chiaro: la Cina è una presenza stabile e solidale, mentre gli Stati Uniti sono lontani, volubili e poco affidabili. Questo approccio è stato ufficializzato nella conferenza a porte chiuse del Politburo del Partito comunista cinese svoltasi il 7 e 8 aprile a Pechino. Qui, la cosiddetta “diplomazia di vicinato” ha assunto i toni di una strategia articolata, fondata sui principi di “amicizia, sincerità, beneficio reciproco e inclusività”.

Tale diplomazia si concretizza anche attraverso le nuove vie della seta, con importanti progetti infrastrutturali in corso o previsti in Thailandia, Malesia e Vietnam. L’obiettivo è collegare direttamente questi paesi alla Cina tramite nuove linee ferroviarie operative entro il 2030. A ciò si aggiungono tre “iniziative globali” promosse da Pechino nei campi dello sviluppo, della sicurezza e della civiltà, finalizzate a rafforzare la cooperazione regionale su più livelli e a promuovere modelli di governance alternativi a quelli occidentali.

Nel nuovo contesto, i valori promossi da Washington – democrazia liberale, diritti individuali, pluralismo – perdono terreno di fronte a una retorica incentrata sull’ordine, il collettivismo e il rispetto delle gerarchie. Come osservano Sophie Boisseau du Rocher e Christian Lechervy nel loro saggio L’Asie-Pacifique. Nouveau centre du monde, tali valori, ribattezzati “valori asiatici”, sono oggi riutilizzati dalla Cina per legittimare un modello autoritario di sviluppo e convivenza.

L’effetto più diretto delle nuove politiche statunitensi è stato l’imposizione di dazi elevati su prodotti provenienti da paesi ASEAN: 49% per il Cambogia, 46% per il Vietnam, poi ridotti al 10%. Questi provvedimenti hanno colpito economie in via di sviluppo che basano buona parte della propria crescita sulle esportazioni. In risposta, alcuni governi locali hanno accettato di aumentare le importazioni dagli Stati Uniti e rafforzare i controlli sull’origine delle merci per evitare le triangolazioni cinesi, ma chiedono in cambio un maggiore accesso alle tecnologie e agli investimenti.

Parallelamente, la Cina propone alternative in settori tecnologici avanzati come i semiconduttori, l’intelligenza artificiale e l’aeronautica. In ambito commerciale, la ritirata statunitense è già evidente: mentre Amazon fatica a imporsi nel commercio elettronico locale, gruppi cinesi come Alibaba, Temu e ByteDance dominano il mercato, insieme a un ecosistema di start-up locali quali Lazada, Shopee, Grab, Tokopedia e Gojek.

Secondo John Lee, autore di un’analisi pubblicata sul sito Fulcrum, la politica trumpiana ha di fatto accelerato il processo di decoupling tra Cina e Stati Uniti, noto come “Chimerica”. Tuttavia, conclude Lee, questo approccio non favorisce necessariamente una nuova configurazione economica globale a vantaggio di Washington. Al contrario, sembra offrire alla Cina l’occasione di rafforzare la propria centralità nel continente asiatico.

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