La leva della finanza: la dipendenza dal debito come arma contro Donald Trump
Il Giappone agita lo spettro della vendita dei titoli di Stato statunitensi, rilanciando il dibattito sull’uso strategico del debito americano da parte dei creditori esteri in risposta alle politiche commerciali aggressive del presidente Trump.

Il 2 maggio 2025, il ministro delle finanze giapponese Katsunobu Kato ha dichiarato, durante un’intervista a TV Tokyo, che il Giappone potrebbe utilizzare la propria quota di titoli del Tesoro statunitensi come strumento di pressione nelle trattative con Washington. «È una carta che esiste, ma la decisione di utilizzarla è un’altra questione», ha affermato Kato, provocando un’immediata reazione nei mercati finanziari. Per la prima volta, il principale alleato asiatico degli Stati Uniti ha evocato apertamente la possibilità di usare il debito americano come arma negoziale.
Il Giappone è infatti il primo creditore estero degli Stati Uniti, con circa 1.125 miliardi di dollari in titoli del Tesoro, pari a poco meno del 4% del totale del debito federale americano. Una loro eventuale vendita massiccia farebbe salire i tassi d’interesse statunitensi, aumentando i costi di finanziamento del deficit federale. Due giorni dopo, il ministro ha cercato di ridimensionare le sue affermazioni: «Non stiamo considerando la vendita dei titoli del Tesoro americani nell’ambito dei negoziati Giappone - Stati Uniti». Tuttavia, la questione è ormai aperta, e le sue parole hanno fatto eco a una preoccupazione già diffusa.
Dall’inizio di aprile, il presidente Donald Trump ha infatti introdotto nuovi dazi definiti “reciproci”, acuendo le tensioni commerciali. In questo contesto, sono circolate voci secondo cui la Cina avrebbe reagito vendendo una parte dei titoli statunitensi in suo possesso, per un ammontare stimato intorno ai 60 miliardi di dollari, direttamente o attraverso soggetti intermedi. Queste indiscrezioni, raccolte da gestori patrimoniali europei, non trovano però conferma nei dati ufficiali. Il segretario al Tesoro statunitense Scott Bessent, il 15 aprile, ha escluso un’azione destabilizzante cinese, precisando che «se la Federal Reserve sospettasse che un rivale straniero – non userei il termine avversario – stesse usando il mercato del debito americano come un’arma politica, interverrebbe. Ma al momento non abbiamo visto segnali in tal senso».
Il debito federale americano ha raggiunto quasi 29.000 miliardi di dollari. Circa il 30% di questo ammontare è detenuto all’estero: quasi la metà da banche centrali, il resto da investitori istituzionali privati come fondi pensione, assicurazioni e gestori di patrimoni. Dopo il Giappone, il secondo detentore estero è la Cina, con 1.060 miliardi di dollari (inclusa Hong Kong). Complessivamente, gli attori asiatici possiedono circa il 10% del debito pubblico americano. L’Europa, considerata nel suo complesso (Unione Europea, Regno Unito, Norvegia e Svizzera), detiene una quota analoga, stimata al 9,5%.
In teoria, queste cifre rappresentano un potenziale notevole di pressione diplomatica. Ma nella pratica, come spiega Cyril Regnat, direttore della ricerca presso la banca d’affari Natixis, una manovra di vendita massiccia non è così semplice da attuare: «Dove si può reinvestire la liquidità ricavata da una simile operazione? Attualmente non esiste un mercato equivalente a quello dei titoli del Tesoro statunitensi. Sarebbe inevitabilmente un processo frammentato, lento e poco credibile nel breve termine».
La minaccia di vendere titoli americani è dunque un’arma a doppio taglio. Se da un lato i Paesi creditori possono esercitare pressione sugli Stati Uniti, dall’altro rischiano perdite significative in caso di svalutazione dei titoli stessi. Inoltre, mantenere la stabilità del valore dei Treasury è anche nel loro interesse, data la natura ancora percepita come “sicura” di questi strumenti e il rendimento che garantiscono.
Nonostante ciò, alcuni Paesi stanno progressivamente riducendo la loro esposizione. È il caso della Cina, che dal 2013 ha ridotto del 40% il proprio portafoglio di titoli del Tesoro statunitensi. Anche altre banche centrali asiatiche stanno seguendo lo stesso orientamento. Questo progressivo disimpegno porta con sé un mutamento rilevante nella struttura del debito americano: nel 2008, prima della crisi finanziaria globale, solo la metà del debito era in mano a investitori statunitensi. Oggi questa quota è salita al 70%.