La Corte d'Appello ordina all'Amministrazione Trump di riportare a casa il migrante espulso "per errore"
Un tribunale federale ha respinto il tentativo della Casa Bianca di bloccare l'ordine di rimpatrio di Kilmar Armando Ábrego García, residente legale del Maryland attualmente detenuto in un mega carcere salvadoregno dopo un'espulsione definita dal governo stesso come "errore amministrativo".

La Corte d’Appello del Quarto Circuito ha stabilito all’unanimità che l’Amministrazione Trump deve adoperarsi attivamente per facilitare il ritorno negli Stati Uniti di Kilmar Armando Ábrego García, cittadino salvadoregno residente legalmente nello Stato del Maryland ed espulso per errore.
La sentenza conferma quanto già disposto dalla giudice distrettuale Paula Xinis, che aveva delineato i passaggi necessari per riportare Ábrego García sul suolo statunitense.
Il caso è diventato emblematico delle tensioni tra potere esecutivo e giudiziario in materia di immigrazione, con rilevanti implicazioni costituzionali e diplomatiche.
Secondo quanto ha ammesso lo stesso Dipartimento di Giustizia, l’espulsione di Ábrego García è avvenuta a causa di un errore amministrativo. Nonostante ciò, l’Amministrazione Trump continua a sostenere che l’uomo sia affiliato alla gang criminale MS-13, benché non sia mai stato formalmente incriminato per alcun crimine legato a tale organizzazione.
Una decisione unanime contro l’interpretazione restrittiva dell’esecutivo
Nel respingere la richiesta del governo di sospendere l’ordine del tribunale di grado inferiore, la Corte d’Appello ha criticato duramente la posizione dell’amministrazione.
“Il governo sta affermando il diritto di nascondere i residenti di questo Paese in prigioni straniere senza quel minimo di giusto processo che è il fondamento del nostro ordine costituzionale”.
Il tribunale ha anche voluto ribadire il proprio rispetto per i poteri presidenziali garantiti dall’Articolo II della Costituzione, ma ha precisato di non voler “microgestire gli sforzi di un eccellente giudice distrettuale che tenta di implementare la recente decisione della Corte Suprema”.
Proprio quest’ultima, solo una settimana prima, aveva stabilito che gli Stati Uniti devono “facilitare” il rilascio di Ábrego García. Tuttavia, secondo l’interpretazione dell’Amministrazione Trump, ciò implicherebbe un obbligo solo passivo, limitato ad accettare il ritorno dell’uomo nel caso in cui El Salvador lo richiedesse esplicitamente.
La Corte d’Appello ha rigettato questa lettura, chiarendo invece che “‘facilitare’ è un verbo attivo”, e implica che siano effettivamente intraprese azioni da parte degli Stati Uniti per rendere possibile il ritorno di Ábrego García.
Un caso complesso tra Stati Uniti e El Salvador
Ad aggravare la complessità della vicenda interviene la posizione del presidente salvadoregno Nayib Bukele, che ha affermato, durante una visita alla Casa Bianca, di non poter restituire Ábrego García agli Stati Uniti, né di volerlo rilasciare all’interno del territorio di El Salvador.
Attualmente, infatti, l’uomo si trova detenuto in una mega prigione salvadoregna nota per le sue condizioni particolarmente dure.
La Segretaria alla Sicurezza Interna Kristi Noem aveva chiesto formalmente alla Corte d’Appello di sospendere temporaneamente l’esecuzione degli ordini emessi dalla giudice Xinis.
L’Amministrazione Trump ha sostenuto che i tribunali non dovrebbero poter imporre azioni specifiche all’esecutivo, configurando questa eventualità come un’ingerenza indebita nei poteri presidenziali, soprattutto in un ambito delicato come quello delle relazioni internazionali e della sicurezza interna.
La Corte d’Appello ha tuttavia ritenuto che il potere giudiziario ha non solo il diritto, ma anche il dovere di garantire che gli individui non vengano privati della libertà o dei propri diritti senza un giusto processo. Nel caso di Ábrego García, l’espulsione è avvenuta non solo in assenza di incriminazioni, ma anche in violazione delle tutele previste per i residenti legali.
La vicenda di Kilmar Armando Ábrego García rappresenta perciò uno snodo significativo nel dibattito sui limiti del potere esecutivo in materia di immigrazione e sulle garanzie offerte dal sistema giudiziario statunitense.
La sentenza del Quarto Circuito non si limita infatti a ordinare il ritorno di un singolo individuo, ma riafferma anche il ruolo del potere giudiziario come garante dei diritti anche in situazioni che coinvolgono l’Amministrazione della sicurezza nazionale e le relazioni con Paesi terzi.