La Cina costruisce una rete logistica nel Pacifico: 50 infrastrutture strategiche preoccupano gli Stati Uniti

Una rete di infrastrutture “civili” si estende per 4.800 km nel Pacifico meridionale. Coinvolti 11 paesi e aziende cinesi legate alla difesa. Possibile impatto sulle operazioni USA in caso di conflitto.

La Cina costruisce una rete logistica nel Pacifico: 50 infrastrutture strategiche preoccupano gli Stati Uniti

La Cina ha silenziosamente ampliato la propria presenza militare nel Pacifico attraverso la costruzione di una fitta rete di infrastrutture apparentemente civili ma con potenziale uso militare. Lo rivela un rapporto ottenuto in esclusiva da Newsweek, secondo il quale sono almeno 50 i “nodi strategici” già operativi in 11 paesi insulari del Pacifico, per un’estensione di circa 4.800 chilometri: dalla Papua Nuova Guinea, a nord dell’Australia, fino a Samoa, a meno di 70 chilometri dal territorio statunitense delle Samoa Americane.

La rete comprende porti, aeroporti e progetti di comunicazione ed è stata sviluppata principalmente da aziende statali cinesi, alcune delle quali sanzionate dagli Stati Uniti per i legami con il settore della difesa. Secondo Domingo I-Kwei Yang, ricercatore presso l’Istituto per la Difesa Nazionale e la Ricerca sulla Sicurezza di Taiwan, questi progetti rappresentano un sistema logistico “civile-militare” che potrebbe rivelarsi decisivo in uno scenario di conflitto nel Pacifico.

Lo studio, intitolato Infrastrutture a doppio uso della Cina nel Pacifico e pubblicato nell’ambito del Progetto Coastwatchers 2.0—una collaborazione tra l’Università di Canterbury in Nuova Zelanda e il centro di ricerca praghese Project Sinopsis—identifica 39 nodi già attivi. L’indagine di Newsweek ne ha individuati altri 11, portando il totale ad almeno 50. Il valore complessivo degli investimenti è stimato in circa 3,55 miliardi di dollari, provenienti da una combinazione di sovvenzioni, prestiti e finanziamenti di banche cinesi, istituzioni regionali e governi locali.

I progetti sono distribuiti in circa due terzi dei membri del Forum delle Isole del Pacifico. Tra questi, 26 riguardano aeroporti, di cui almeno 12 sono oggi in grado di ospitare lo Y-20, il più grande aereo da trasporto militare cinese. La potenziale capacità militare di queste strutture pone interrogativi strategici per la sicurezza della regione e la libertà operativa degli Stati Uniti e dei loro alleati.

Particolarmente significativa è la presenza cinese in Papua Nuova Guinea, dove sono stati identificati 21 progetti. Tra questi figura l’aeroporto di Momote, sull’isola di Manus, vicino a un porto in acque profonde usato da navi statunitensi. Secondo Yang, ciò offre a Pechino un possibile “punto d’appoggio” per monitorare o interferire con le attività militari congiunte tra Washington e i partner regionali.

Anche l’isola di Vanuatu, già sede durante la Seconda Guerra Mondiale di una base navale americana, riveste un’importanza strategica. Qui, un’impresa statale di Shanghai ha ampliato il molo del porto di Luganville di quasi 370 metri, rendendolo idoneo all’attracco di grandi navi cargo e potenzialmente anche militari. Il progetto, finanziato con un prestito di 97 milioni di dollari dalla Exim Bank cinese, potrebbe preparare il terreno per una futura presenza militare, secondo Yang, nonostante sia stato formalmente pagato dallo Stato ospitante.

A rafforzare l’interesse di Pechino per l’area, nell’ottobre 2024 due cacciatorpediniere missilistici della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione—di tipo 055 e 052D—hanno fatto scalo nella capitale di Vanuatu, Port Vila. Si tratta del primo dispiegamento noto di queste unità nel Pacifico meridionale.

Lo studio suggerisce che la rete di infrastrutture potrebbe compromettere la capacità degli Stati Uniti e dei loro alleati di operare in ampie aree del Pacifico, ostacolando ad esempio eventuali interventi militari a difesa di Taiwan. Secondo Yang, la strategia cinese mira a rimodellare l’equilibrio di potere nella regione, mettendo sotto pressione le alleanze storiche di Washington con paesi come Giappone, Corea del Sud, Filippine, Australia e Nuova Zelanda, spingendoli a rivedere i propri accordi di sicurezza.

I “nodi strategici” del Pacifico fanno parte di un piano geostrategico più ampio conosciuto come Southern Link, che si estende fino al Sud America. Un esempio è il megaporto di Chancay, in Perù, costruito e gestito dal colosso statale della navigazione COSCO, inaugurato lo scorso anno e considerato un punto logistico chiave sul versante opposto dell’Oceano Pacifico.

Tra le aziende coinvolte nei progetti figurano China Communications Construction Company (CCCC), già nota per la costruzione delle basi cinesi nel Mar Cinese Meridionale, e Huawei Technologies, entrambe soggette a sanzioni statunitensi. L’inclusione di queste imprese rafforza i timori riguardo alla possibile duplice natura—civile e militare—delle infrastrutture in questione.

Alla richiesta di chiarimenti da parte di Newsweek, un rappresentante dell’ambasciata cinese a Washington ha dichiarato che Pechino intende “costruire un futuro migliore con i suoi vicini” perseguendo “un ambiente pacifico, tranquillo, prospero e amichevole” come visione comune di sviluppo.

La crescente competizione strategica nel Pacifico e la natura opaca degli investimenti cinesi pongono interrogativi rilevanti per la sicurezza regionale e la stabilità degli equilibri internazionali. L’evoluzione della rete logistica cinese continuerà probabilmente a essere oggetto di attenzione e monitoraggio da parte degli analisti e dei governi dell’area indo-pacifica.

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