Il Washington Post nella bufera: tensioni interne e pressioni esterne nell’era Trump

Il quotidiano simbolo del giornalismo investigativo americano è scosso da dimissioni eccellenti, censure editoriali e calo di abbonamenti, mentre il proprietario Jeff Bezos è accusato di imprimere una svolta ideologica favorevole a Donald Trump.

Il Washington Post nella bufera: tensioni interne e pressioni esterne nell’era Trump

All’ombra delle due torri dorate che sovrastano Franklin Square, a pochi isolati dalla Casa Bianca, il Washington Post attraversa una delle fasi più turbolente della sua lunga storia.

Il quotidiano che contribuì alla caduta di Richard Nixon con lo scandalo Watergate è oggi al centro di polemiche e tensioni interne, legate al ruolo del suo proprietario Jeff Bezos, fondatore di Amazon, e alla delicata fase politica della seconda presidenza Trump.

Il segnale della crisi è arrivato il 10 marzo, con le dimissioni di Ruth Marcus, vice direttrice delle pagine Opinioni e figura storica del giornale.

La sua decisione è stata dovuta alla censura di un suo editoriale critico – per quanto moderato – verso l’orientamento ideologico che Bezos ha imposto alla sezione: spazio a opinioni che difendono “libertà individuali” e “mercati liberi”, esclusione per i punti di vista opposti.

Una linea considerata ambigua ma percepita in redazione come un segnale di allineamento al presidente Trump.

La scossa più visibile è arrivata con la rinuncia a pubblicare l’editoriale di sostegno a Kamala Harris undici giorni prima delle elezioni presidenziali del 2024.

Una decisione senza precedenti nella tradizione del Post, che si è sempre espresso apertamente sulle candidature presidenziali. La motivazione formale – il venir meno della fiducia dei cittadini nei media – non ha placato il malcontento interno.

L’intervento diretto di Bezos, con un articolo difensivo pubblicato sul Post stesso, ha suscitato nuove perplessità.

Gli effetti non si sono fatti attendere: il quotidiano ha perso circa 375.000 abbonati in pochi mesi, il 15% della sua base lettori.

A questi numeri si aggiungono le difficoltà economiche: nel 2023 il giornale ha registrato una perdita di 77 milioni di dollari, cresciuta a 100 milioni nel 2024.

Per affrontare il calo, Bezos ha nominato Will Lewis come nuovo direttore esecutivo.

Il giornalista britannico, ex Telegraph e legato al gruppo Murdoch, porta con sé un passato controverso legato allo scandalo delle intercettazioni del News of the World.

La sua gestione ha ulteriormente diviso la redazione, soprattutto dopo l’estromissione della direttrice Sally Buzbee e la nomina sfumata del suo amico Robert Winnett, noto per pratiche giornalistiche discusse.

L’episodio più emblematico: Lewis ha dichiarato davanti alla redazione “Nessuno legge più quello che scrivete”, proponendo un rilancio su TikTok.

Nonostante le tensioni, la copertura giornalistica dell’amministrazione Trump è rimasta critica.

Il quotidiano ha paragonato il presidente a Don Corleone dopo l’incontro umiliante con Zelensky.

Ma il timore che la linea editoriale più allineata possa filtrare anche nelle notizie cresce.

I giornalisti parlano apertamente di “incertezza” e “interventi estremi”.

Bezos, inizialmente visto come il salvatore del giornale dopo l’acquisto nel 2013 per 250 milioni di dollari, viene oggi accusato di aver sacrificato l’indipendenza editoriale per non compromettere i propri interessi.

Il suo riavvicinamento a Trump è segnalato da episodi come la donazione di un milione di dollari per l’investitura del 2025, una cena a Mar-a-Lago con il presidente e Elon Musk, l’acquisto dei diritti per un film sulla vita di Melania Trump e la riprogrammazione del reality The Apprentice, trampolino televisivo della carriera politica di Trump.

All’interno del Post, si moltiplicano cosi le partenze illustri.

La vignettista Ann Telnaes, premio Pulitzer, ha lasciato il giornale dopo la censura di una sua caricatura in cui Bezos e altri imprenditori offrivano denaro a una statua grottesca di Trump.

A inizio aprile, anche Eugene Robinson, editorialista e Pulitzer nel 2009, ha annunciato il suo addio, dopo essere stato insultato pubblicamente da Trump su Truth Social.

La crisi di fiducia colpisce un’istituzione fondata nel 1887 come contro-potere.

Secondo Silvio Waisbord, docente alla George Washington University, si assiste a un ritorno a un modello ottocentesco di stampa partigiana, lontano dal giornalismo professionale e imparziale sviluppatosi nel XX secolo.

Un segnale di questa trasformazione è il cambio di motto.

La celebre dicitura “Democracy dies in darkness”, introdotta da Bezos in risposta alle minacce della prima presidenza Trump, è stata sostituita internamente con uno slogan più commerciale: “Riveting storytelling for all of America” (“Un racconto avvincente per tutta l’America”).

Una formula che si addice più a una piattaforma d’intrattenimento che a un organo di stampa indipendente.

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