Il tramonto della globalizzazione? Come Trump 2.0 potrebbe sconvolgere l'ordine economico mondiale

La seconda ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca, sancita da una vittoria elettorale ancor più decisa rispetto a quella già di per se sconvolgente del 2016, non ha scosso solo gli Stati Uniti: la sua retorica di un’America di nuovo “libera, sovrana e indipendente” sta facendo infatti ipotizzare a molti osservatori internazionali che si avvicina la fine dell’era del libero scambio.
Ma a cosa andiamo incontro se davvero il modello mercantilista – o, come alcuni lo chiamano, “neo-mercantilista” – della nuova Amministrazione dovesse davvero imporsi su larga scala? E come siamo arrivati a questo punto, dopo decenni di globalizzazione (almeno teoricamente) inarrestabile?
Un nuovo inizio: l’“oro” torna al centro della scena
Nella sua cerimonia d’insediamento, Trump ha ribadito che il futuro appartiene all’America e che gli Stati Uniti torneranno a dominare il mondo non solo militarmente, ma anche economicamente.
Qualcuno vi scorge un parallelo con le antiche politiche mercantiliste, quando le potenze coloniali puntavano ad arricchirsi riempiendo i forzieri nazionali di riserve d’oro, imponendo dazi sulle importazioni e sostenendo a suon di sussidi le proprie esportazioni.
Oggi, anziché di galeoni carichi di metalli preziosi, si parla di “rivedere” le filiere produttive, riportando in patria il più possibile le filiere strategiche, proteggendo le industrie nazionali con barriere tariffarie ed accumulando riserve strategiche (che includono ancora oggi l’oro) per fronteggiare possibili crisi.
A essere coinvolti in questo processo non sono solo gli Stati Uniti. Anche in Cina e in altre economie emergenti (India, Brasile, Turchia) si osserva da tempo un andazzo del genere.
Di recente si segnala infatti un aumento degli acquisti di oro da parte di governi e banche centrali di Paesi ben lontani dai tradizionali modelli liberisti, con la Turchia in prima fila malgrado l’inflazione galoppante.
E, sullo sfondo, si intravede la tendenza a impiegare le riserve auree come leva di stabilità finanziaria, talvolta preludio a interventi militari (come nel caso siriano per Ankara) o finanziari più o meno aggressivi.
La lunga ombra della crisi finanziaria del 2008
Da dove nasce la diffidenza verso il libero mercato, che ora Trump sembra voler estremizzare? Gli economisti la collegano spesso alla grande crisi finanziaria del 2008.
Gli Stati Uniti e l’Europa di inizio millennio sembravano irremovibili nel credere alla bontà della globalizzazione e delle politiche ispirate alla deregolamentazione finanziaria di stampo reaganiano e thatcheriano.
Eppure la bolla speculativa dei mutui subprime, crollata sulle teste di milioni di lavoratori e risparmiatori, ha generato un’onda lunga di sfiducia sui mercati finanziari e sulla globalizzazione, lasciando una parte rilevante della popolazione occidentale disillusa e impoverita.
L’Amministrazione Obama è intervenuta con un massiccio “pompaggio” di liquidità, che ha permesso di scongiurare i peggiori scenari di bancarotta generalizzata. Ma a lungo andare le misure adottate hanno rafforzato la percezione che le istituzioni fossero più inclini a salvare gli asset bancari che non a difendere i lavoratori vittime di disoccupazione e precarietà.
Soprattutto la classe operaia bianca americana, ma più di recente anche quella afroamericana e latinoamericana, si è sentita esclusa dalla ripartenza dell’economia post-crisi.
Da qui l’adesione di molti di questi elettori al nazionalismo economico di Trump, incentrato sulla promessa di riallocare le attività produttive sul territorio statunitense e di riportare in vita il “Sogno Americano” (ma solo per pochi, come sottolineano i critici).
Nuove tensioni e nuove alleanze
Il secondo insediamento di Trump alla Casa Bianca ha riaperto nel dibattito pubblico internazionale la questione della tenuta del sistema di regole della World Trade Organization (WTO), mentre si profilano tariffe doganali più alte e “guerre commerciali” potenzialmente cruente, soprattutto contro competitor diretti degli USA.
Si parla in primo luogo la Cina, ma senza escludere anche l'Unione Europea, accusata più volte da Trump di frode per aver inondato il mercato americano di prodotti sussidiati.
A ben vedere, però, il cambiamento si era già intravisto sotto il suo predecessore Biden. Sebbene appartenente al Partito Democratico, Biden aveva mantenuto in vita gran parte della linea protezionista di Trump, dal controllo dell’export tecnologico verso Pechino alle sanzioni contro la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, fino a politiche di “friendshoring” (volte cioè a commerciare solo con Paesi ritenuti “amici”).
Anche i grandi piani di sussidi all’industria e alle tecnologie verdi (IRA, CHIPS and Science Act) approvati durante l'Amministrazione Biden ricalcano l’idea di consolidare la filiera produttiva all’interno dei confini statunitensi, diminuendo la dipendenza dalle importazioni critiche dall'estero.
Parallelamente, in altre regioni del pianeta si è assistito ad un riarmo generalizzato, ufficialmente per motivi di sicurezza o stabilità: dall’Europa, spinta a investire in difesa dal conflitto in Ucraina, all’Asia, dove la rivalità tra Cina e Stati Uniti genera una continua crescita delle spese militari.
Le risorse, in tali circostanze, finiscono necessariamente col ridursi per altri tipi di spese come istruzione, sanità, cultura e welfare. Molti governi si giustificano dicendo che la priorità sta diventando quella di difendere gli interessi nazionali in un mondo che appare sempre più instabile e diviso in blocchi rivali.
Europa sotto stress
Se l’economia americana può forse reggere un parziale ritorno al protezionismo, la stessa flessibilità non sembra però valere per l’Unione Europea, la cui competitività storica è strettamente connessa alle esportazioni e a un accesso energetico globale a costi abbordabili.
Un inasprimento dei dazi e dei blocchi commerciali rischia di peggiorare la situazione, già complicata dall’aumento dei prezzi dell’energia e dalle tensioni geopolitiche.
I Paesi dell’UE, inoltre, si trovano a dover rispondere alle politiche di sussidio statunitensi (e cinesi) senza avere la stessa libertà d’azione di Washington: il bilancio comunitario è limitato, e non tutti gli Stati membri possono sostenere investimenti miliardari in un’industria nazionale “strategica” senza incappare nei vincoli di bilancio.
Di converso, gli Stati Uniti d'America possono ancora sacrificare qualcosa in termini di scambio internazionale e contare ancora su un vastissimo mercato interno; l’Europa, più piccola e molto dipendente dalle importazioni, rischia quindi, alla lunga, di venire tagliata fuori dai giochi.
La lezione della storia
Davvero quindi ci stiamo avvicinando al tramonto della globalizzazione e dell’ortodossia liberista? Se guardiamo alla retorica di Trump e alle politiche protezioniste in voga in mezzo mondo, la sensazione è che la strada sia segnata.
Nei secoli passati, il mercantilismo ha effettivamente permesso a potenze coloniali come Gran Bretagna, Paesi Bassi e Francia di costruire e gestire immensi imperi. Ma la storia ha anche mostrato come il passaggio alla libera concorrenza e al libero mercato (specie per Londra) abbia prodotto una rivoluzione industriale capace di trasformare il Paese in una potenza mondiale.
Non è detto inoltre, che, nell’era contemporanea, un ritorno totale al protezionismo possa portare i medesimi benefici: le filiere si sono ormai globalizzate, la tecnologia viaggia a velocità impensabili ai tempi di Napoleone, e la domanda interna, per quanto grande, non può da sola sostenere la crescita di una nazione per quanto ricca di ambizioni geopolitiche, se slegata dai propri partner commerciali.
Come risultato, c’è chi sostiene che l’era della globalizzazione non sia destinata a sparire, bensì a frammentarsi in una serie di “blocchi” regionali o ideologici, magari più rigidi di quanto avessimo immaginato sinora.
La posta in gioco è alta: lo dimostra la postura della Russia, che sin dal 2008 ha iniziato a incrementare le proprie riserve auree e a dare priorità alla politica di potenza militare (sfociata nell’invasione dell’Ucraina).
Altre potenze globali, come la Cina, praticano già da anni un protezionismo “soft”, ma sempre più marcato, a vantaggio delle proprie industrie strategiche.
Le sfide restano però colossali e la storia economica insegna che il pendolo potrebbe tornare a oscillare verso mercati più aperti appena cambieranno i rapporti di forza o gli interessi dei singoli blocchi.
Nel frattempo, la competitività delle industrie, lo sviluppo di nuove tecnologie (inclusa l’intelligenza artificiale generativa) e la transizione energetica verso fonti di energia pulita continuano ad andare avanti anche se tra pressioni politiche e barriere commerciali che rischiano di frenare la crescita mondiale.
Sta di fatto che, mentre il mondo dibatte su tutti questi argomenti, Donald Trump – dal pulpito della Casa Bianca – proclama solennemente che “l’età dell’oro americana” è appena cominciata. Sarà davvero così o assisteremo, come in passato, a un nuovo contraccolpo della storia? La risposta, al momento, rimane avvolta in una nebbia più fitta che mai.