Il debito pubblico americano costa sempre di più
L’ondata di vendite di titoli del Tesoro e l’innalzamento dei rendimenti segnalano crescenti timori degli investitori: il debito pubblico record, unito all’assenza di disciplina fiscale, rischia di generare una spirale di costi che soffocherà la crescita

Dopo l’approvazione alla Camera del Big Beautiful Bill, che prevede significativi tagli fiscali e di spesa promossi dal presidente Donald Trump, i mercati finanziari hanno lanciato un chiaro segnale di allarme. L’asta dei titoli del Tesoro statunitensi a 20 anni ha registrato una domanda debole, provocando un netto aumento dei rendimenti. Si tratta di una chiara indicazione della crescente riluttanza degli investitori a finanziare un debito pubblico in continua espansione senza una strategia credibile di contenimento.
Quanto successo ricorda la reazione dei mercati al Liberation Day, quando l'annuncio dei dazi di Trump portò a un’ondata di vendite dei titoli del Tesoro fino a spingere il presidente a fare marcia indietro. Anche oggi, come allora, il messaggio degli investitori è chiaro: senza un impegno concreto verso la stabilità fiscale, i costi per finanziare il debito aumenteranno, innescando una potenziale spirale pericolosa per la sostenibilità finanziaria del paese.
L’aumento dei tassi di interesse richiesti per acquistare titoli di Stato rappresenta un costo crescente per il governo, che potrebbe sottrarre risorse a spese prioritarie come la difesa o il welfare. Giovedì, il rendimento dei titoli trentennali del Tesoro ha toccato il 5,13%, il valore più alto dal 2007. Già mercoledì, l’asta dei titoli ventennali aveva mostrato segnali di scarso interesse da parte degli investitori.
Questi sviluppi si inseriscono in un quadro più ampio. I mercati stanno rivalutando il rischio di detenere debito a lungo termine nei principali paesi industrializzati, in un contesto di inflazione ancora elevata e di possibile fine dell’era dei tassi bassi. Il debito pubblico degli Stati Uniti è destinato ad ampliarsi di migliaia di miliardi di dollari in seguito all’approvazione del disegno di legge su tagli fiscali e spesa, mentre l’agenzia Moody’s ha recentemente declassato il rating del credito statunitense, aggravando le preoccupazioni.
Anche altri paesi avanzati stanno registrando pressioni sui propri mercati obbligazionari. I rendimenti dei titoli di Stato giapponesi e britannici sono aumentati ancora più rapidamente di quelli statunitensi, rispettivamente in risposta a dati inflazionistici peggiori delle attese e a crescenti dubbi sulla sostenibilità fiscale. In Giappone, i titoli a 40 anni hanno raggiunto un rendimento del 3,69%, in aumento di oltre un punto percentuale in poco più di un mese. Simili dinamiche si osservano nel Regno Unito, in Canada e in Europa, seppur con minore intensità.
Un aspetto rilevante di questa dinamica è la differente evoluzione dei tassi a breve e a lungo termine. Mentre i rendimenti a breve scadenza si sono mossi solo marginalmente, quelli a lungo termine sono saliti nettamente. Questo implica che non sono le aspettative congiunturali a guidare il mercato, ma una rivalutazione strutturale del rischio connesso al debito a lunga scadenza. La curva dei rendimenti, più inclinata, può suggerire fiducia nella crescita futura, ma in questo caso pare riflettere soprattutto il timore di inflazione persistente e l’abbondanza di emissioni obbligazionarie rispetto ai risparmi disponibili.
In effetti, il problema non riguarda soltanto gli Stati Uniti. Nell’intero mondo sviluppato, i governi si trovano a fare i conti con l’eredità di anni di politica fiscale espansiva e di debiti accumulati durante la pandemia. Al contrario, molte economie emergenti sembrano oggi in condizioni migliori. Paesi come India, Nigeria, Brasile e Messico, un tempo considerati ad alto rischio per gli investitori obbligazionari, stanno beneficiando di rendimenti in calo grazie a politiche fiscali più prudenziali e a prospettive di crescita più robuste. Gli investitori internazionali iniziano così a considerare queste economie come opzioni più stabili nel lungo termine.
L’afflusso sempre più modesto di capitali verso i titoli di Stato occidentali implica rendimenti più alti, un dollaro in calo e mercati azionari stagnanti. Il nodo principale rimane la sostenibilità fiscale. Come ha affermato giovedì il governatore della Federal Reserve Christopher Waller: “I mercati stanno cercando un po’ più di responsabilità fiscale. Tutti quelli con cui ho parlato nei mercati finanziari stanno fissando il conto e pensavano che ci sarebbe stata molto di più in termini di disciplina”.
A complicare ulteriormente la situazione, vi è il fatto che i costi di prestito pubblici si riflettono in quelli privati. Poiché i tassi sui titoli del Tesoro fungono da parametro di riferimento per altri strumenti di credito, mutui e prestiti al consumo diventeranno progressivamente più onerosi. È vero che questi prestiti sono spesso indicizzati a tassi più brevi, che restano stabili, ma il trend al rialzo sui tassi a lungo termine suggerisce un’erosione graduale della capacità di spesa di famiglie e imprese.