I retroscena della campagna elettorale di Kamala Harris: dalla preparazione in segreto alla notte della sconfitta

Un'analisi dettagliata dei 107 giorni che hanno visto la ex vicepresidente correre per la Casa Bianca, dalle operazioni preliminari alle ultime ore della campagna elettorale prima della sconfitta.

I retroscena della campagna elettorale di Kamala Harris: dalla preparazione in segreto alla notte della sconfitta
Immagine creata dall’intelligenza artificiale. Fonte: ChatGPT

I preparativi per la candidatura di Kamala Harris alla presidenza erano iniziati ben prima che Joe Biden si ritirasse dalla corsa.

Come rivela Chris Whipple nel suo nuovo libro "Uncharted", lo staff della ex vicepresidente aveva avviato operazioni segrete per la sua candidatura già tre giorni prima dell'annuncio ufficiale del ritiro di Biden, pur essendo consapevole che qualsiasi indizio di manovre per sostituire l’ex presidente in corsa per la rielezione sarebbe stato politicamente fatale per lei.

I primi timidi passi verso la candidatura

La responsabile dello staff di Harris, Lorraine Voles, aveva iniziato a considerare questa eventualità fin dal 19 novembre 2021, quando la vicepresidente aveva temporaneamente assunto i poteri presidenziali durante una colonscopia di Biden.

Per preparare la possibile sostituzione, il team di Harris aveva avviato l’operazione in maniera discreta, reclutando persone senza legami diretti con la vicepresidente.

Il 18 luglio 2024, tre giorni prima che Biden si facesse da parte, Stephanie Schriock, ex responsabile di Emily's List, aveva contattato un operativo democratico per sviluppare un piano di emergenza per la candidatura di Harris in caso di ritiro del presidente.

Contemporaneamente, alleati di Harris stavano coordinando un gruppo di senatori democratici di primo piano, pronti a chiedere pubblicamente il ritiro di Biden se questo non fosse avvenuto entro il 22 luglio.

In quei giorni, sia Nancy Pelosi che Barack Obama avrebbero preferito delle primarie aperte anziché un'incoronazione di Harris, con Obama che sembrava favorire piuttosto la candidatura di un governatore come Whitmer o Shapiro.

La svolta: il ritiro di Biden

La svolta decisiva arrivò domenica 21 luglio, poco dopo mezzogiorno, quando Biden chiamò Harris.

La vicepresidente, vestita con tuta e felpa della Howard University, si trovava nella cucina della residenza ufficiale quando ricevette la ferale notizia:

"Ho deciso di non candidarmi".

Harris, apparentemente sorpresa, chiese conferma della decisione.

Biden richiamò poco dopo per informarla che la Casa Bianca avrebbe annunciato la sua decisione a breve, seguita da un tweet di endorsement per lei.

Dopo l'annuncio, Harris si è trovata costretta a dover conquistare rapidamente la nomination presidenziale per tagliare la strada a qualsiasi potenziale rivale.

Attorno al tavolo della sala da pranzo, una decina di consiglieri con laptop aperti e telefoni in mano hanno iniziato a raccogliere sostegno da tutto il Paese.

Harris chiamò di persona Bill e Hillary Clinton, che offrirono appoggio immediato.

Poi contattò gli Obama: l'ex presidente si dimostrò favorevole ma preferì attendere qualche giorno prima di darne pubblicamente notizia, mentre Michelle non solo offrì pieno sostegno, ma si disse disponibile a fare campagna con Harris, cosa che non aveva fatto per Biden.

Harris chiamò quindi potenziali rivali per la nomination: i governatori Roy Cooper, Josh Shapiro, Gretchen Whitmer, JB Pritzker e Gavin Newsom.

Quando alcuni di loro chiesero quale sarebbe stato il "processo" di selezione, Harris rispose che si sarebbe seguita la procedura normale: chiunque avesse ottenuto la maggioranza dei delegati avrebbe vinto la nomination.

Cooper, Whitmer, Shapiro e Newsom offrirono il loro sostegno lo stesso giorno, seguiti dal senatore dell'Arizona Mark Kelly.

Successivamente, in un momento particolarmente toccante, Harris chiamò anche il suo pastore, il reverendo Amos C. Brown, che guidò lei e il suo staff in preghiera, citando Michea 6:8:

"Che cosa richiede il Signore da te se non di praticare la giustizia, amare la bontà e camminare umilmente con il tuo Dio?"

La vicepresidente si commosse fino alle lacrime.

Entro le 10 di sera, Harris aveva chiamato più di 100 persone e nessun potenziale rivale l'aveva sfidata.

Il giorno successivo, la sua candidatura aveva già ottenuto l'appoggio della maggioranza dei democratici al Congresso. Entro 48 ore, si era assicurata il sostegno della maggior parte dei delegati che sarebbero stati alla Convention.

Il tragico epilogo della sconfitta elettorale

Se la campagna era partita bene, centosette giorni dopo, la notte elettorale è arrivata al suo tragico epilogo.

Nonostante molti sondaggi mostrassero la candidata in difficoltà contro Trump in diversi Stati in bilico, i portavoce della campagna si mostravano stranamente ottimisti sulle possibilità di vittoria.

La presidente del suo staff elettorale Jen O'Malley Dillon aveva dichiarato il 27 ottobre su MSNBC:

"Siamo molto fiduciosi che vinceremo".

Anche la responsabile dello staff Voles sentiva l'energia positiva della campagna:

"Ti fai trascinare dallo slancio. Ci credi davvero. Sono stata in campagne vincenti e in campagne perdenti, e questa sembrava più quella di Clinton [1992] che quella di Dukakis [1988]".

Non si trattava di sondaggi o analisi, ma di sensazioni:

"I comizi erano pieni di gente entusiasta. La folla si accalcava per le strade".

La mattina delle elezioni, Harris si riunì con la sua famiglia nella parte anteriore della residenza, mentre nella parte posteriore Nix, Voles e altri monitoravano i risultati.

O'Malley Dillon e il suo team gestivano il centro operativo della campagna presso il Marriott Marquis vicino alla Howard University, tenendo informati Harris e la sua cerchia ristretta sull'andamento del voto.

La tragica verità arrivò poco dopo la mezzanotte.

Quando gli esperti di analisi dissero a O'Malley Dillon che non vedevano più l’esistenza di un concreto percorso per la vittoria, lei chiamò la vicepresidente e le disse:

"Siamo in svantaggio negli Stati del Blue Wall, e non credo che saremo in grado di recuperare".

Di fronte all’ineluttabilità di una seconda presidenza Trump, la risposta di Harris fu semplicemente:

"Oh, mio Dio. Ora cosa accadrà a questo Paese?"

All'1 del mattino, O'Malley Dillon affrontò uno dei compiti più difficili della sua vita: chiamare le sue figlie gemelle di 12 anni che avevano fatto campagna porta a porta per Harris in Arizona per annunciare loro che tutto era finito.

Fu in quel momento che anche la tenace direttrice della campagna crollò in lacrime.

Mentre i sostenitori di Harris lasciavano il campus devastato dalla notizia della sconfitta, il terreno era rimasto disseminato di bandiere americane e poster Harris-Walz abbandonati, quasi come simbolo della fine di una campagna elettorale che ironicamente aveva avuto come tema principale: "Non torneremo indietro".

Gli elettori americani avevano scelto diversamente. Per gli Stati Uniti e per il mondo si apriva la prospettiva di nuovi quattro anni caotici di presidenza Trump, mentre per il Partito Democratico iniziava una crisi che, a distanza di mesi, è ancora in atto e della quale non si vede una fine immediata all’orizzonte.

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