I Dem non sono contenti del libro di Kamala Harris
Il memoir “107 Days” dell’ex vicepresidente contiene critiche a Biden, Buttigieg e Shapiro. I democratici parlano di rancori e strategia confusa, tra chi lo legge come un addio alla politica e chi come un tentativo di rilancio.

L’ex vicepresidente Kamala Harris ha scelto un libro per dire ciò che in politica raramente aveva detto. Il suo memoir, intitolato “107 Days” e non ancora ufficialmente uscito, ha già suscitato irritazione nel Partito democratico. La pubblicazione, 300 pagine scritte come un diario della sua campagna lampo, mescola difesa del proprio operato, ammissioni di errori e racconti critici su figure di primo piano del partito.
Secondo interviste realizzate da Politico con oltre quindici esponenti democratici, il volume non è stato accolto con entusiasmo. Molti dirigenti faticano a comprendere le ragioni di Harris, convinti che l’effetto principale sia stato quello di riaprire le ferite della seconda sconfitta contro Donald Trump. “Se c’è una strategia politica qui, è una cattiva strategia”, ha commentato David Axelrod, storico consigliere di Barack Obama.
Le pagine dedicate ai rapporti con i possibili candidati alla vicepresidenza hanno fatto discutere. Harris racconta di aver inizialmente scelto Pete Buttigieg, ma di aver ritenuto troppo rischioso presentare una candidatura guidata da “una donna nera sposata con un uomo ebreo” con un vice dichiaratamente gay. Buttigieg ha definito “sorprendenti” queste parole, aggiungendo di credere che gli americani meritino “più credito”.
Altri passaggi hanno colpito il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro. Harris lo descrive come eccessivamente ambizioso, riportando un episodio in cui lui avrebbe immaginato come arredare la residenza del vicepresidente. Un portavoce di Shapiro ha liquidato il racconto come “ridicolo”, mentre lo stesso governatore ha replicato in un’intervista che Harris dovrebbe chiarire perché non parlò prima delle difficoltà di Joe Biden nel proseguire la corsa elettorale.
Non mancano critiche implicite anche a Biden. Harris definisce “sconsiderata” la decisione dell’ottuagenario presidente di ricandidarsi, e ricorda episodi di comportamento insolito, come una telefonata alla vigilia di un dibattito con Trump per riportarle le lamentele del fratello. Tuttavia, Harris difende anche il suo ex capo, attestando la sua preparazione sui dossier e prendendone le parti in occasioni delicate, come davanti al procuratore speciale Robert Hur. Nel libro, i giudizi più duri arrivano soprattutto dai suoi consiglieri.
Il memoir non è solo un elenco di accuse. Harris rivendica la propria esperienza in politica estera e sottolinea i risultati dell’amministrazione Biden-Harris. Inserisce anche momenti personali, come la delusione per il marito Doug che si dimenticò del suo compleanno. Ma a colpire di più sono le frasi sugli avversari interni, considerate da molti democratici controproducenti.
Alcuni osservatori hanno interpretato il libro come il congedo di Harris dalla politica. “Sembra un addio”, ha detto un consulente nazionale. Ma fonti vicine all’ex vicepresidente smentiscono, sottolineando che il racconto è anche un modo per rafforzare le sue credenziali in vista di future sfide.
L’accoglienza, comunque, resta fredda. “Ha colpito tutti, ma non conta nulla. La gente ha reagito con un collettivo alzata di spalle”, ha affermato un consigliere di un possibile candidato 2028. Adam Green, co-fondatore del Progressive Change Campaign Committee, ha sintetizzato così il problema: “Se avesse vinto la presidenza, queste pagine avrebbero un senso. Ma non lo ha fatto, e non riesce a collegarsi con i lavoratori, che era la chiave per vincere”.
Il giudizio diffuso, tra perplessità e fastidio, è che “107 Days” rischi di lasciare più dubbi che certezze sul futuro politico di Kamala Harris.