Guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina: le armi economiche di Pechino

Washington ha rilanciato i dazi contro Pechino, ma la Cina conserva diversi strumenti per rispondere, pur tra rischi e limiti. Dalla valuta al controllo sulle terre rare, una fotografia dell’interdipendenza tra le due economie.

Guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina: le armi economiche di Pechino

All’inizio di aprile, la tensione tra Stati Uniti e Cina ha raggiunto un nuovo picco con l’avvio di una guerra commerciale a colpi di dazi. Il presidente Donald Trump ha imposto un aumento delle tariffe del 34% sui prodotti cinesi, sommando questa cifra al 10% già in vigore. In pochi giorni, il tasso complessivo è salito al 145%. La risposta di Pechino non si è fatta attendere: i dazi cinesi hanno raggiunto il 125%.

Questa nuova fase di confronto commerciale mostra quanto siano profonde e complesse le relazioni economiche tra le due potenze. La Cina dispone di numerosi strumenti per rispondere, ma l’uso di questi strumenti comporta rischi significativi anche per la propria economia.

La Cina, secondo detentore di titoli del Tesoro americano

Uno dei principali strumenti di pressione potenziale per la Cina è la sua consistente detenzione di titoli del Tesoro statunitensi. Nel 2024, Pechino deteneva in media 772,5 miliardi di dollari in titoli, il che la colloca al secondo posto tra i creditori stranieri degli Stati Uniti, dopo il Giappone. Questi titoli rappresentano circa il 2% del debito pubblico americano, che ha superato i 36.000 miliardi di dollari.

In teoria, la Cina potrebbe destabilizzare il mercato obbligazionario statunitense vendendo in massa questi titoli, costringendo Washington a offrire rendimenti più elevati per attrarre nuovi investitori. Tuttavia, questa mossa sarebbe in contrasto con la politica di stabilità finanziaria perseguita da Pechino. Secondo François Chimits, economista del Mercator Institute for China Studies, tali operazioni restano difficili da tracciare, poiché i titoli sono detenuti attraverso entità bancarie commerciali controllate dallo Stato e paesi terzi.

Yuan sotto controllo e legame con il dollaro

Un’altra leva cruciale è il controllo del cambio tra yuan e dollaro. Il governo cinese regola strettamente la propria valuta tramite la People’s Bank of China, che stabilisce quotidianamente un tasso pivot attorno al quale lo yuan può oscillare. Questa politica consente a Pechino di mantenere uno yuan debole, favorendo l’export e contrastando gli effetti dei dazi americani.

Il 10 aprile, lo yuan ha raggiunto il valore più basso dal 2007: 7,35 yuan per dollaro. Tuttavia, il mantenimento artificiale di un cambio favorevole espone la Cina alle accuse di manipolazione monetaria. Lo stesso Trump ha accusato Pechino di usare la propria moneta per aggirare le nuove tariffe. Un’accusa simile era stata formalizzata già nel 2019 dal Tesoro statunitense.

Un indebolimento dello yuan rende più costose le importazioni e può penalizzare i consumi interni, in un momento in cui la Cina mira a riequilibrare la propria economia puntando sulla domanda interna.

Una bilancia commerciale strutturalmente favorevole a Pechino

Il deficit commerciale degli Stati Uniti nei confronti della Cina è un tema centrale della retorica protezionista di Trump. Nel 2024, il disavanzo ha raggiunto 295,4 miliardi di dollari. Anche se le importazioni dirette dalla Cina sono diminuite, molte merci cinesi vengono oggi esportate via paesi terzi come il Vietnam o il Messico.

Questo surplus rappresenta un’arma a doppio taglio: da un lato garantisce a Pechino un margine di manovra economico, dall’altro la rende vulnerabile a un calo della domanda statunitense. Per compensare un’eventuale contrazione dell’export verso gli USA, la Cina punta su una maggiore spesa interna e sull’apertura verso altri mercati, soprattutto in Europa. Tuttavia, secondo Chimits, la capacità di consumo dei cittadini cinesi resta limitata e con caratteristiche differenti rispetto a quella statunitense.

Investimenti cinesi in calo negli Stati Uniti

Nel 2023, gli investimenti cinesi accumulati negli Stati Uniti ammontavano a 43,9 miliardi di dollari e generavano circa 117.100 posti di lavoro. Tuttavia, il volume degli investimenti è in calo da anni, dopo il picco del 2014. La riduzione è stata determinata sia da politiche restrittive cinesi per il controllo dei capitali, sia da barriere imposte da Washington, in particolare nei settori sensibili come la tecnologia.

Secondo Bloomberg, Pechino avrebbe recentemente introdotto ulteriori limiti agli investimenti delle sue imprese negli Stati Uniti. Tuttavia, per l’economista Mary-Françoise Renard, utilizzare gli investimenti come strumento di pressione comporterebbe un costo anche per la Cina: gli investimenti oltreoceano le garantiscono accesso al mercato e know-how strategici, in settori come l’intelligenza artificiale e la biotecnologia.

Inoltre, gli investimenti statunitensi in Cina restano elevati: nel 2023 ammontavano a 127 miliardi di dollari. Pechino sta quindi cercando di rassicurare le imprese americane sul proprio territorio per evitare un disimpegno. Nonostante il clima di tensione, Renard sottolinea come nessuno dei due paesi sembri avere un reale interesse in un disaccoppiamento profondo delle rispettive economie.

Monopolio cinese sulle terre rare

Infine, uno degli strumenti più strategici a disposizione della Cina è il controllo sulle terre rare, essenziali per tecnologie avanzate e per l’industria della difesa. La Cina produce il 70% dei minerali di terre rare a livello mondiale e ne raffina circa il 90%, coprendo il 70% del fabbisogno statunitense.

All’inizio di aprile, Pechino ha imposto un nuovo regime di licenze per l’esportazione di diversi metalli rari e magneti, creando blocchi nei porti cinesi e incertezza tra le aziende occidentali. Secondo il Center for Strategic and International Studies, l’industria della difesa statunitense sarebbe particolarmente vulnerabile: un aereo F-35 richiede oltre 400 kg di terre rare, un cacciatorpediniere di classe Arleigh Burke circa 2.250 kg, e un sottomarino di classe Virginia fino a 4.250 kg.

Tuttavia,questa strategia può rivelarsi un’arma a doppio taglio: spinge i paesi occidentali a diversificare le proprie fonti e rilocalizzare la produzione, erodendo nel tempo il vantaggio comparativo di Pechino.

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