Gli Stati Uniti con Trump stanno diventando un'autocrazia?

Ritorsioni contro oppositori, espulsioni arbitrarie e attacchi alla stampa mettono in discussione l’equilibrio tra poteri negli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti con Trump stanno diventando un'autocrazia?
Immagine creata dall'intelligenza artificiale. Fonte: ChatGPT

Negli Stati Uniti il secondo mandato di Donald Trump è al centro di una crescente preoccupazione per l’erosione delle istituzioni democratiche. A riflettere su cosa sta succedendo è l’economista e opinionista Noah Smith, che in un’analisi pubblicata sul su Noahpinion affronta l’evoluzione del potere presidenziale e le potenziali derive autoritarie dell’attuale amministrazione. Pur sottolineando che definire Trump un dittatore nel senso tecnico del termine sarebbe esagerato, Smith evidenzia una serie di azioni e retoriche che ricalcano modelli propri dei regimi autoritari.

Uno degli episodi analizzati da Smith riguarda l’attacco del presidente ai media. Trump ha accusato le principali emittenti televisive, in particolare CNN e MSNBC, di influenzare l’opinione dei giudici attraverso le loro inchieste e ha sostenuto che alcune delle loro attività dovrebbero essere considerate illegali. Un’affermazione che, pur rimanendo nella sfera della retorica, alimenta i timori sulla libertà di stampa e sul rispetto della separazione dei poteri.

Smith sottolinea come l’amministrazione abbia anche preso di mira studi legali percepiti come ostili. In particolare, gli ordini esecutivi contro Perkins Coie e Paul, Weiss, con la revoca dei nulla osta di sicurezza e l’interdizione dall’accesso a edifici federali, sono stati percepiti come un tentativo di intimidazione. A ciò si aggiunge un provvedimento che incoraggia il Dipartimento di Giustizia a sanzionare gli avvocati che intraprendono cause ritenute “futili” contro l’amministrazione. Questi atti, secondo Smith, spingono verso una maggiore concentrazione di potere nelle mani del presidente, riducendo la capacità delle istituzioni di fungere da contrappeso.

Un altro caso emblematico riguarda la gestione delle espulsioni. L'economista cita l’episodio di due voli carichi di cittadini venezuelani, sospettati di appartenere alla gang Tren de Aragua, che sono stati espulsi nonostante un ordine giudiziario di fermo. L’amministrazione ha dichiarato di non aver violato la legge poiché gli aerei si trovavano già in acque internazionali. Smith fa notare l’ambiguità legale di questo comportamento e lo interpreta come un tentativo di testare i limiti dell’autorità presidenziale.

Particolarmente preoccupanti sono i casi delle espulsioni legate alle proteste pro-Palestina. Uno dei nomi citati è quello di Mahmoud Khalil, studente siriano a Columbia University, accusato di aver partecipato ad atti illegali durante le manifestazioni. Sebbene la sua posizione giuridica appaia controversa, Smith sottolinea che il caso di Yunseo Chung, residente permanente negli USA dal settimo anno di età, è molto più chiaro. Nonostante non fosse una leader delle proteste, l’amministrazione ha cercato di espellerla. Un giudice ha temporaneamente bloccato l’espulsione, ma il solo tentativo rappresenta, secondo Smith, un serio attacco alla libertà d’espressione.

L’episodio più grave, secondo l’autore, riguarda l’espulsione di centinaia di uomini in El Salvador, in gran parte venezuelani sospettati di legami con la criminalità organizzata. Molti di loro erano rifugiati legali o beneficiari dello status di Protezione Temporanea, revocato da Trump. In assenza di udienze o procedure legali, il criterio adottato per identificarli come membri della gang sarebbe stato la presenza di tatuaggi. Una volta arrivati in El Salvador, questi uomini — probabilmente anche innocenti — sono stati incarcerati in condizioni disumane.

Secondo Smith, questo approccio riflette una strategia ben precisa: Trump non impone l’autoritarismo apertamente, ma esplora sistematicamente i punti deboli delle istituzioni americane. Un modus operandi simile a quanto già osservato durante il tentativo fallito di ribaltare l’esito delle elezioni del 2020, portato avanti attraverso azioni legali e pressioni politiche, anziché con un colpo di mano diretto.

Smith identifica in questa condotta un cambiamento rispetto al passato. Se nel primo mandato si accusava Trump di agire per “crudeltà”, oggi sembra prevalere una logica di conquista del potere: “The power is the point”. Non si tratta più soltanto di colpire i nemici politici, ma di mettere alla prova i limiti del sistema, per ottenere sempre maggiore libertà d’azione in futuro.

A rafforzare questa lettura sono le dichiarazioni di figure vicine al movimento MAGA. Sebastian Gorka sostiene che Trump abbia piena autorità sull’immigrazione, mentre Tom Homan, suo “zar della frontiera”, ha giustificato la negazione del diritto al giusto processo ai migranti facendo riferimento al caso di una vittima di omicidio. Michael Flynn, ex consigliere per la sicurezza nazionale, ha invocato uno stato d’emergenza che conferirebbe poteri straordinari al presidente. E Sean Davis, cofondatore del Federalist, ha messo apertamente in discussione l’autorità della Corte Suprema.

La conclusione dell’analisi di Smith è che, pur non essendo ancora formalmente una dittatura, l’America di Trump si sta muovendo in quella direzione. E il rischio maggiore non sta solo nelle intenzioni del presidente, ma nella disponibilità della sua base elettorale e dei suoi collaboratori a seguirlo lungo quel percorso.

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