Ex poliziotto condannato a 33 mesi per la morte di Breonna Taylor
Il tribunale di Louisville ha inflitto una pena di oltre due anni e mezzo a Brett Hankison, ignorando la richiesta di clemenza del ministero della giustizia dell’amministrazione Trump, che aveva chiesto un solo giorno di detenzione già scontato.

Un ex agente di polizia statunitense è stato condannato a trentatré mesi di carcere per il suo ruolo nella morte di Breonna Taylor, giovane donna afroamericana uccisa nel marzo 2020 a Louisville, Kentucky. La vittima, 26 anni, è diventata un simbolo del movimento Black Lives Matter dopo essere stata colpita da otto proiettili durante un’irruzione della polizia nel suo appartamento.
La sentenza è stata pronunciata lunedì 21 luglio dal tribunale di Louisville, che ha respinto la richiesta di clemenza avanzata dal ministero della giustizia dell’amministrazione Trump. L’organo federale, infatti, aveva chiesto una pena di un solo giorno di detenzione, già considerato scontato, per Brett Hankison, l’agente riconosciuto colpevole a novembre 2024 di aver violato i diritti civili della giovane donna. La giudice Rebecca Grady Jennings ha ritenuto tale richiesta poco convincente e ha aggiunto alla pena detentiva tre anni di libertà condizionale.
Gli avvocati della famiglia Taylor hanno definito l’atteggiamento del ministero «un insulto alla vita di Breonna e una palese tradizione della decisione del jury». La madre della vittima, Tamika Palmer, ha parlato pubblicamente dopo la sentenza, circondata dai legali, ribadendo la necessità di giustizia per la figlia.
Ben Crump, uno dei legali più noti in casi di violenze contro minoranze, ha sottolineato su X che Hankison è «l’unico poliziotto condannato in relazione alla perquisizione durante la quale Breonna fu uccisa». La difesa della famiglia ha accolto con favore una pena più severa di quella invocata dal governo, ma ha ribadito la propria critica verso l’incapacità delle autorità federali di difendere con forza i diritti delle donne afroamericane.
Particolarmente contestata è stata la firma della richiesta di condanna minima, che non proveniva dal procuratore incaricato, bensì dalla vice ministra della giustizia per i diritti civili, Harmeet Dhillon, nominata dal presidente Donald Trump. Dhillon aveva motivato la propria posizione affermando che, pur avendo sparato alla cieca dieci colpi verso l’appartamento di Breonna Taylor, Hankison non aveva ferito né lei né altre persone quella notte. Una pena superiore, secondo la vice ministra, sarebbe stata «ingiusta».
Gli avvocati della famiglia hanno replicato che una simile raccomandazione «invia un messaggio inequivocabile secondo cui i poliziotti bianchi possono violare i diritti civili degli afroamericani con quasi totale impunità».
Breonna Taylor fu uccisa nella notte del 13 marzo 2020 quando la polizia di Louisville irruppe nel suo appartamento nel corso di un’operazione antidroga legata a un ex fidanzato della giovane. L’attuale compagno della donna, credendo di trovarsi di fronte a un’intrusione, sparò un colpo con un’arma legalmente detenuta. Gli agenti risposero con oltre trenta proiettili, colpendo mortalmente la 26enne.
La vicenda ha avuto un ampio impatto sociale e politico negli Stati Uniti, diventando uno dei casi emblematici delle violenze di polizia contro la comunità afroamericana. L’esito del processo a Hankison segna il primo riconoscimento giudiziario di colpevolezza per un agente coinvolto nell’operazione.