Cina, un esercito di robot nella guerra dei dazi
Massicci investimenti in automazione e intelligenza artificiale consentono a Pechino di mantenere competitività industriale nonostante le barriere commerciali imposte dagli Stati Uniti e da altri Paesi

La Cina sta puntando su una strategia tecnologica per affrontare la guerra dei dazi: un’armata di robot industriali alimentati da intelligenza artificiale. L’automazione delle fabbriche procede a ritmi sostenuti, riducendo i costi di produzione e migliorando la qualità, in un contesto segnato da barriere doganali imposte dal presidente Trump e da altri Stati, tra cui l’Unione Europea, Brasile, India, Turchia e Thailandia.
Secondo l'International Federation of Robotics, la Cina è oggi più automatizzata di Stati Uniti, Germania e Giappone, con un numero di robot industriali per 10.000 lavoratori secondo solo a quello di Corea del Sud e Singapore. Questa trasformazione è frutto di una pianificazione centrale sostenuta da forti investimenti pubblici, ed è parte della strategia per mantenere il primato nella produzione industriale nonostante il rapido invecchiamento della popolazione e la crescente disaffezione dei giovani verso il lavoro in fabbrica.
Un esempio emblematico, citato dal New York Times, è lo stabilimento di Zeekr, produttore di auto elettriche, a Ningbo. In soli quattro anni, il numero di robot è passato da 500 a 820. Carrelli robotizzati trasportano lingotti di alluminio, che vengono fusi e modellati da macchinari cinesi, per poi essere assemblati da bracci meccanici in una "dark factory", dove l’illuminazione è superflua grazie all’assenza di personale umano.
Nonostante l’alta automazione, restano compiti affidati ai lavoratori: controllo qualità, installazione di cablaggi e levigatura di superfici prima della verniciatura. Tuttavia, anche in queste fasi l’intelligenza artificiale sta guadagnando terreno. Telecamere ad alta risoluzione confrontano ogni veicolo con un database di riferimento, segnalando eventuali difetti in pochi secondi.
Ma l’automazione non si limita ai grandi impianti. Anche nelle officine artigianali, come quella di Elon Li a Guangzhou, i robot stanno facendo il loro ingresso. Li sta investendo 40.000 dollari in un braccio robotico dotato di telecamera e intelligenza artificiale capace di replicare saldature osservando il lavoro umano. Solo quattro anni fa, un sistema analogo costava quasi 140.000 dollari ed era disponibile solo da fornitori stranieri.
Nel frattempo, le aziende cinesi stanno acquisendo produttori esteri di robotica avanzata, come la tedesca Kuka, e spostano la produzione in patria. Anche Volkswagen, nello stabilimento aperto a Hefei, utilizza quasi esclusivamente robot prodotti a Shanghai.
La svolta tecnologica è guidata da iniziative statali come Made in China 2025, che identifica la robotica tra i settori strategici. A tal fine, Pechino ha chiesto ai principali produttori di auto di noleggiare robot umanoidi, dotati di due braccia e due gambe, e di registrare video che li mostrano all’opera. Pur eseguendo solo compiti semplici, come smistare componenti in magazzino, l’esercizio ha stimolato nuove riflessioni sull’impiego dei robot.
Un’iniziativa mediatica è stata la mezza maratona organizzata dal governo di Pechino, a cui hanno partecipato 12.000 corridori e 20 robot umanoidi: solo sei hanno tagliato il traguardo, ma l’evento ha attirato l’attenzione sul settore.
Lo sviluppo è sostenuto da un fondo nazionale di venture capital da 137 miliardi di dollari per robotica, intelligenza artificiale e tecnologie avanzate, e da un’espansione del credito: negli ultimi quattro anni le banche statali hanno aumentato i prestiti all’industria per 1.900 miliardi di dollari. Anche la formazione gioca un ruolo centrale: le università cinesi laureano ogni anno circa 350.000 ingegneri meccanici, contro i 45.000 degli Stati Uniti.
In Cina, però, non esistono sindacati indipendenti e il controllo del Partito Comunista limita lo spazio per il dissenso, facilitando l’introduzione di tecnologie che altrove troverebbero maggiore resistenza. Inoltre, il calo della natalità e l’alta percentuale di giovani che proseguono gli studi riducono il bacino di manodopera industriale disponibile. "Il dividendo demografico della Cina è finito — ha affermato Stephen Dyer della società di consulenza AlixPartners parlando con il Times — ora il Paese si trova in un deficit demografico, e l’unica via d’uscita è la produttività".