Capitalismo americano, un modello unico centrato sull’individuo
Roger Lowenstein spiega perché l’economia statunitense si distingue da quella europea e asiatica, tra incentivi al rischio, innovazione e disuguaglianze persistenti

Il capitalismo statunitense rifletta la stessa struttura della democrazia da cui è nato: aperto all’iniziativa individuale, incline a incoraggiare la competizione e a premiare chi è disposto a rischiare. Lo scrive il giornalista Roger Lowenstein sul Wall Street Journal.
Secondo Lowenstein, la forza del capitalismo statunitense risiede proprio nella sua matrice jeffersoniana, che mette al centro l’individuo. Mentre l’Europa ha sviluppato un ampio sistema di welfare e infrastrutture pubbliche come l’alta velocità ferroviaria, gli Stati Uniti si sono orientati verso le autostrade e le startup. Non a caso, nota l’autore, il Paese resta l’ambiente dove l’innovazione tecnologica ha prosperato maggiormente.
Già Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro, aveva difeso la speculazione finanziaria come leva per alimentare nuovi investimenti in un’economia giovane. Al contrario, Thomas Jefferson e James Madison vedevano negli speculatori figure poco meritevoli rispetto ai veterani della guerra d’indipendenza. La vittoria di Hamilton consolidò un modello che ha reso la speculazione parte integrante dello sviluppo economico americano.
Lowenstein sottolinea come questa predisposizione al rischio distingua gli Stati Uniti da altri Paesi, dove gli speculatori sono spesso guardati con sospetto. A ciò si è aggiunta, nel corso dell’Ottocento, un’evoluzione legislativa che ha favorito l’iniziativa privata: dalle leggi sull’incorporazione libera al superamento delle prigioni per debitori, fino a norme fallimentari più permissive, che hanno reso più semplice avviare attività imprenditoriali e attrarre capitali.
Non mancano, tuttavia, le contraddizioni. L’autore individua nella schiavitù il grande limite all’ideale di opportunità diffusa, sottolineando come il Sud schiavista fosse in realtà l’antitesi del capitalismo americano, più vicino a un’economia rendita che a un sistema produttivo dinamico. Altri nodi strutturali sono le disuguaglianze, contenute nei primi decenni ma riesplose tra fine Ottocento e in epoca recente.
Nell’analisi emerge il confronto con l’Europa: più egualitaria ma meno ricca. Lowenstein evidenzia come il reddito pro capite negli Stati Uniti è oggi superiore dell’84% rispetto a quello europeo, anche se i dati mostrano come il capitalismo americano “non produca per chi è in fondo alla scala sociale”. Un lavoratore al decimo percentile guadagna appena 19.000 dollari l’anno, con una povertà più dura rispetto al vecchio continente, dove i sistemi di welfare riducono il divario anche in termini di aspettativa di vita.
Il capitalismo statunitense, osserva l’autore, resta però straordinariamente competitivo e resiliente. Nel 2024 sono state registrate 5,5 milioni di nuove domande di apertura di imprese, un record pari a una ogni 24 famiglie. Questo dinamismo continua ad attrarre talenti da tutto il mondo, alimentando un ciclo di innovazione che ha pochi paragoni.
L’analisi si chiude con un avvertimento: il modello americano non è immutabile. Le scelte dell’attuale amministrazione, come il piano di acquisire una quota del 10% di Intel, avvicinano il sistema a forme di intervento statale più simili a quelle europee o cinesi. Secondo Lowenstein, questa svolta mette in discussione l’eccezionalismo americano, fondato sulla convinzione che il business sia anzitutto veicolo per l’iniziativa individuale.
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